Se una città storica è espropriata della sua storia

FRANCO AVICOLLI
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Riferendosi alla zona archeologica di Roma, Carlo Aymonino sosteneva che la separazione di questa dalla città contemporanea è per i romani un vero e proprio esproprio perché, nell’esercizio del loro ruolo di cittadini, gli abitanti della capitale vengono privati del dialogo identitario con la storia della città in cui vivono non potendo rappresentare il valore del quale dovrebbero essere portatori. Quando divenne poi assessore agli interventi sul centro storico del comune di Roma, l’architetto, che fu rettore dello IUAV in tempi di splendore, non riuscì a risolvere la questione che rimase nelle intenzioni e in alcuni progetti fermatisi allo stadio di disegni e bozzetti.  

E tuttavia, il caso di Venezia sembrerebbe mettere in dubbio la “verità romana” di Aymonino giacché il fatto che a Venezia i suoi cittadini vivano nella città storica non determina un effetto diverso da quello romano, perché anche in laguna i meccanismi in funzione agiscono nel senso dell’esproprio del ruolo di portatori della civiltà che corrisponde ad una visione del mondo visto dall’acqua. Non ho elementi per dire che a Pompei – altra variante di città storica – ci sia un’assunzione moderna dell’essere nell’attualità una Pompei vitale, cioè impegnata a sviluppare attività corrispondenti al proprio valore oltre le ragioni dell’uso turistico. 

Nondimeno, la questione del rapporto tra città moderna e città antica rimane sul tappeto, essendo una caratteristica quasi generale del nostro paese con una problematica di particolare importanza per le implicazioni culturali di un atteggiamento passivo verso il valore di un bene di cui, da portatori consapevoli, si diventa via via depositari, memoria passiva di una storia che ha costituito riferimenti sociali coesivi e valori di riconoscimento – l’arte nelle sue varie espressioni è stata ed è una scuola di formazione di riferimenti collettivi in cui riconoscersi – considerati solo nella loro funzione d’uso. La casistica è ampia e va dagli insediamenti del neolitico, alla città greca, all’etrusca, alla romana e fino a quella medievale e rinascimentale che vivono con la città moderna in varie forme di simbiosi e di associazione, con il caso speciale di Venezia che è morfologicamente la città che si può vedere nella mappa di Jacopo de’ Barbari del 1500 (nell’immagine che segue).

Pompei, Roma e Venezia sono tre città abbastanza simboliche di tutto il panorama e rappresentano ognuna un valore storico al quale sono funzionalmente legate, nel senso che tutte e tre sono oggetto di interesse che attrae un turismo che è fattore di grande importanza per il sistema produttivo e relazionale urbano e territoriale. Ma con un paradosso: nessuna delle tre città ha una struttura di governo e di funzione direttamente collegata con i valori dei beni che rappresenta, nel senso che i comuni non dispongono di un organo territoriale di governo, né di un’autorità sui beni che è esercitata dal potere centrale attraverso gli uffici periferici delle sovrintendenze, né di strumenti formativi che sono affidati alle università e a centri di restauro, istituzioni di grande livello scientifico e culturale che però hanno una funzione di controllo e non sono strutturalmente e funzionalmente collegate con il governo della città e quindi con il suo destino.

La questione è ampiamente dibattuta e non intendo aggiungere altro, ma solo rilevare che in questa situazione le città si limitano esclusivamente a progetti variamente turistici e di accoglienza che, pur apportando benefici di carattere economico, producono una divaricazione progressiva tra gli abitanti e il senso della città in cui vivono, un conseguente impoverimento culturale dovuto all’atteggiamento passivo dell’attività di accoglienza, per non dire dei fenomeni di cambio d’uso di edifici e palazzi, del disagio e dell’espulsione che a Venezia hanno raggiunto livelli di guardia che fra l’altro mettono in forte dubbio l’esercizio della democrazia sottoposta alla pressione dominante della monocultura turistica.

@susi_pie “cosa succede nelle città italiane #patrimoniounesco… bancarelle ovunque a #Roma e #Venezia #cattivogusto #ciarpame”

Da un punto di vista produttivo, inoltre, la città subisce un danno aggiuntivo per le tecnologie necessarie e per i materiali adatti a preservare i beni, una materia affidata sempre in outsourcing con un metodo che impoverisce ulteriormente il patrimonio culturale delle città. Città espropriate dei processi conoscitivi che sovrintendono e partecipano alla conservazione, al destino e alla funzione coesiva dei valori culturali.

In una città come Venezia sono praticamente scomparsi o in via di estinzione gli artigiani e i mestieri che rappresentano un valore della città e per la città e basterebbe limitare la questione solo al settore di un materiale come il legno, per rendersi conto della gravità della situazione. Sono aspetti di grande rilevanza perché un percorso con tali passaggi e vuoti, ha una potenzialità distruttiva per il valore dei beni culturali anche nel senso più prosaico dell’interesse venale di merce. E, d’altra parte, non solo è difficile trasmettere l’importanza di un valore che non si ama, ma è anche improbabile che possa esistere un’economia forte senza un mercato interno forte, o pretendere una qualità delle merci che non abbia corrispondenza con la qualità della domanda.

La città storica è un bene culturale divenuto veramente tale in epoca moderna proprio per la sua qualità intrinseca di essere una modalità di guardare al mondo e di una qualità di viverlo, ed è per tali ragioni che è come la conoscenza che si alimenta di se stessa, della curiosità che stimola e che si rinnova perché nel suo esperire relazionale scopre crepe, deficienze, necessità e nuovi percorsi. Essendo la città storica un valore, cioè un corpo vitale con la coscienza di sé, ne consegue che essa sia anche portatrice del progetto che è suggerito dalla necessità e dal desiderio della sua conservazione realizzabile grazie alla tecnica nel senso di apparato conoscitivo storico, tecnologico, sensitivo e culturale, che permette di affermare il valore nell’attualità e nella verità della sua stesa esistenza.

@AntPietrogrande #Venezia Negozio Olivetti (s’intravvede piazza San Marc)

Il problema non è il turismo tout court, ma la città succuba del turismo, di un rapporto finalizzato all’uso che non si occupa della propria cura, dell’importanza che ha e della propria celebrazione e quindi della formazione delle figure professionali, della ricerca dei materiali e dei protagonisti della narrazione nelle varie forme possibili, attività necessarie al mantenimento del valore culturale che hanno un’importante domanda che forse è anche possibile far crescere. Si dice spesso che i beni culturali di cui la città storica è nocciolo e compendio, siano il petrolio italiano e tuttavia sembra che questo straordinario giacimento venga usato semplicemente come una pompa di benzina.

Il ruolo di città come Pompei, come Roma o come Venezia è simile a quello dell’opera d’arte: lontano dalle mani dell’artista, cioè dalle ragioni e dal tempo della sua creazione, essa è lasciata alla sensibilità dell’epoca, dei luoghi e agli interessi del possessore. Si tratta di fattori che, comunque, non possono prescindere dalla considerazione del valore dell’opera d’arte in sé, da una specie di alone che stimola i desideri. In una società dove lo scambio è fondamentale veicolo di trasmissione, il segreto è creare il mondo dei desideri che, in tema d’arte, categoria fondamentale per la sua proprietà di essere valore di riconoscimento e di coesione delle società, è un lavoro che richiede un impegno importante per un’opera moderna, ma comunque minore per un’opera già santificata dalla storia.

La città storica è, inoltre, anche la convergenza delle qualità del territorio di cui è topos, punto di incontro di una catena di valori che porta alla campagna e alla provincia che a loro volta sono portatrici di valori di un sistema relazionale che è all’origine del “desiderio di città” che ha la campagna, di cui diceva Le Corbusier, che la città ha accantonato e che riproduce – il verde, il bosco, la natura – fuori contesto, cioè come scenario e non come sostanza.

È un tema che in epoca moderna presenta molti altri aspetti interessanti con forte valenza culturale, ossia con una grande potenzialità di essere un messaggio di nuove potenzialità nel rapporto tra campagna e città esclusivamente definito nel senso unico del movimento verso la città che forse è giunto ad un punto di saturazione e insostenibilità che non può essere risolto con una semplice inversione del senso, ma forse con la capacità della città di poter irradiare il senso della storia in essa sedimentata.

[parte prima di un articolo apparso sulla rivista cartacea “Nexus” / segue]

Se una città storica è espropriata della sua storia ultima modifica: 2019-01-10T17:52:22+01:00 da FRANCO AVICOLLI
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