Se non avete mai sentito parlare di Jordan Peterson, significa che non siete dei millennial o che, forse, fate parte dell’élite. O che non avete mai letto il suo libro più famoso 12 regole per la vita. Un antidoto al caos perché evitate, come in molti facciamo, gli scaffali delle librerie dedicati ai libri motivazionali. Quindi quest’articolo fa per voi.
Perché Jordan Peterson è stato definito dal New York Times come uno degli intellettuali più influenti del momento. 12 regole per la vita è stato per lungo tempo in cima alle classifiche di Canada, Stati Uniti, Regno Unito, Australia, Germania e Francia. Poco conosciuto in Italia, i suoi podcast sono scaricati da migliaia di persone. I suoi lunghi video su Youtube sono stati visti da milioni: il video di un suo dibattito su Channel 4 è stato visto da più di tredici milioni di persone.
Ma Peterson non è uno di quei bizzarri personaggi che popolano il web e non è nemmeno un troll. Jordan Peterson è uno psicologo clinico e docente universitario canadese di tutto rispetto. Insegna all’Università di Toronto e si occupa di psicologia delle credenze religiose e ideologiche. I suoi libri più famosi sono due. Uno è accademico, Maps of Meaning: The Architecture of Belief (1999), in cui descrive il ruolo dei miti e delle credenze nella creazione di significato e nella regolazione delle emozioni. E l’altro libro è più “pop”, appunto le 12 regole di vita (tradotto in quarantacinque lingue, secondo il suo sito).
Peterson passa dall’essere un accademico conosciuto nel suo ambito a star del web e vero e proprio guru nel 2016. In quell’anno il parlamento canadese si occupa della proposta di legge C-16, che inserisce la discriminazione di genere nella lista dei reati sottoposti alla normativa canadese per la protezione dei diritti umani e di quella relativa ai discorsi di incitamento all’odio. Il professor Peterson diventa in breve tempo uno dei principali oppositori della proposta di legge, grazie proprio a Youtube.
Il video Professor Against Political Correctness diventa immediatamente virale: in esso Peterson attacca la proposta di legge e l’intenzione della sua università di svolgere dei corsi obbligatori “anti-pregiudizio”. Secondo l’accademico, infatti, quella legge e il comportamento dell’università costituiscono una violazione della libertà di espressione poiché un giorno qualche studente potrebbe denunciarlo per non avere utilizzato il pronome di genere preferito dallo studente stesso.
Come chiarì in un editoriale sul quotidiano canadese The National Post:
Non utilizzerò mai parole che detesto, come le parole di moda e artificialmente costruite di ‘zhe’ e ‘zher’. Queste parole sono l’avanguardia dell’ideologia post-moderna, sinistrorsa e radicale che detesto e che è, secondo un’opinione puramente professionale, paurosamente simile alle dottrine marxiste che uccisero almeno cento milioni di persone nel Ventesimo secolo. Ho studiato l’autoritarismo della destra e della sinistra per trentacinque anni […] E sulla base dei miei studi sono giunto alla conclusione che il marxismo sia un’ideologia omicida. Credo che coloro che la insegnano nelle università dovrebbero vergognarsi di loro stessi per continuare a promuovere delle idee malvagie, insostenibili e anti-umane e per indottrinare i propri studenti con queste credenze. Per questo non pronuncerò mai delle parole marxiste. Mi renderebbero un pupazzo della sinistra radicale e non accadrà. Punto.
Le complicazioni sorsero quando l’università gli scrisse delle lettere minacciose in cui lo avvertiva che il misgendering di uno studente – cioè chiamarlo o trattarlo in maniera non conforme alle preferenze di genere dello studente stesso – era una forma di discriminazione secondo le legislazione dello stato dell’Ontario (non quindi secondo il progetto di legge C-16). Peterson non perse l’occasione per rendere pubbliche le lettere e cominciare una vera e propria campagna per la libertà di espressione e accademica contro l’autoritarismo “sinistrorso” del mondo universitario.
La copertura mediatica ottenuta ha fatto il resto, nonostante esperti di diritto e studiosi sottolineassero che il progetto di legge C-16 non prevedeva alcuna misura relativa ai pronomi con cui chiamare qualcuno. Ma a Peterson poco interessava. Aveva ottenuto un podio dal quale poter divulgare le proprie idee sullo stato “miserevole” dell’Occidente.
Viene invitato alle commissioni parlamentari e intervistato da numerosi quotidiani, ma è il successo tra la gente che è straordinario. Dopo essersi visto rifiutare un finanziamento di ricerca, per la prima volta nella sua carriera e probabilmente a cause delle sue accuse al mondo universitario, viene lanciata una sottoscrizione su Patreon in suo sostegno: dai 1000 dollari raccolti ad agosto 2016 passa a 14.000 dollari raccolti per mese da gennaio 2017, a 50.000 dollari nel mese di luglio dello stesso anno. E oggi raccoglie circa 80.000 dollari ogni mese.
I soldi gli permettono, tra le altre cose, di assumere una troupe per filmare le sue lezioni di psicologia all’università di Toronto, che poi vengono pubblicate su Youtube, dove conta più di un milione e trecentomila sottoscrittori. I suoi video, nel loro insieme, sono stati visti sessantacinque milioni di volte.
Quando pubblica le 12 regole comincia un tour mondiale che lo porta a visitare quarantacinque città nel Nord America, in Europa e in Australia, con un pubblico totale di più di centomila persone.
Il suo podcast, The Jordan B. Peterson Podcast, dove dialoga con intellettuali tra i più rilevanti (ma anche tra i più dissidenti e marginali), contava a giugno 2018 cinquantatré episodi.
Perché tutto questo successo per l’autore di un libro motivazionale? Le sue idee. Che preoccupano qualcuno, ma affascinano moltitudini di persone.
Peterson è ossessionato dal caos. I problemi con cui lottano i lettori dei suoi libri motivazionali sono il prodotto del disordine in cui le società occidentali contemporanee sono cadute. Nonostante il benessere della nostra epoca, l’abbandono della società tradizionale sta atomizzando i gruppi sociali: dal ruolo della donna all’omosessualità, dall’ateismo al declino del matrimonio.
E, secondo Peterson, la responsabilità di tutto questo ricade sul “post-modernismo”, termine con cui identifica la tradizione del pensiero francese da Derrida a Foucault. L’École Normale Supérieure di Parigi sarebbe il luogo da cui si è diffusa questa scuola di pensiero che si è in breve tempo imposta in tutto il mondo e che, soprattutto, è un camouflage del marxismo.
Il postmodernismo ha agito attraverso l’imposizione nelle società occidentali di due principi: quello della correttezza politica, political correctness, e quella della politica dell’identità, identity politics.
Ora, i due concetti sono molto legati al dibattito americano anche se il politically correct ha fatto strada anche al di fuori dei confini statunitensi. In sostanza con political correctness si descrivono tutti quei linguaggi, comportamenti o politiche che evitano di recare offesa o svantaggiare i membri di un particolare gruppo sociale: ad esempio, dal punto di vista del linguaggio, l’utilizzo del termine “rom” è preferibile al termine, storicamente negativo, di “zingari”.
Col termine di politica delle identità si intendono tutte quelle posizioni politiche basate su interessi e prospettive di particolari gruppi sociali, che sia per ragioni religiose, di genere o razziali: cittadini di fede musulmana, ad esempio, che richiedono l’inserimento di cibi adatti alle loro credenze religiose nel menù di una mensa scolastica stanno facendo politica dell’identità (religiosa in questo caso). Il termine viene utilizzato dai conservatori americani soprattuto in termini negativi.
Per Jordan Peterson le conseguenze della correttezza politica e della politica dell’identità sono state devastanti per la società occidentale perché, nelle loro forme più estreme, si sono rivelate autoritarie, hanno limitato la libertà di espressione e minacciato la responsabilità individuale. Ma soprattutto hanno creato una cultura della vittimizzazione di alcuni gruppi. Come ad esempio accade in quelle che sono il maggiore veicolo delle idee post-moderniste: le università. Qui, in particolare, discipline come gli studi di genere o razziali o l’antropologia o ancora la sociologia insegnano una sorta di nuovo totalitarismo. Come nel caso del termine white privilege, il privilegio che i “bianchi” hanno a livello sociale rispetto ai non bianchi, anche in condizioni di uguaglianza. Il termine secondo Peterson:
identifica le persone con un particolare gruppo sociale e fa loro penare le conseguenze dell’esistenza di quel gruppo razziale e dei suoi crimini ipotetici. Tutto ciò deve finire. È una forma di razzismo.
O ancora:
L’idea che le donne siano state oppresse dagli uomini nella storia è scandalosa.
Oppure:
L’islamofobia è una parola creata da fascisti e usata da codardi per manipolare degli idioti.
Per Peterson le vittime principali del postmodernismo sono gli uomini, bianchi e giovani soprattutto. Le 12 regole sono rivolte sopratutto a loro, vittime della “crisi della mascolinità” innescata dal femminismo e dalle politiche sociali come il divorzio che hanno destabilizzato la società tradizionale. Perché gli uomini senza un partner tendono a diventare violenti (ha fatto notare che nelle società con forme di monogamia forzata il tasso di violenza maschile diminuiva) e, successivamente, sempre più interessati a ideologie politiche estreme. Per Peterson la vittoria di Donald Trump è la conseguenza dei tentativi della classe politica di “femminilizzazione” dell’uomo.
Il maschio bianco ed eterosessuale si trova così schiacciato tra le “pretese” di gruppi sociali specifici – razziali, etnici, di genere, religiosi e di orientamento sessuale – che gli impongono tutta una serie di comportamenti, violandone la libertà individuale. E le dodici regole dovrebbero aiutare il giovane maschio bianco a far fronte alla difficile situazione in cui si trova a vivere: maggiore fiducia in se stessi, maggiore responsabilità, maggiore religiosità, maggiore attenzione alle tradizioni.
Nell’epoca in cui viviamo, dove molti cercano un senso alla crisi economica, politica e sociale che attraversa l’Occidente, si può ben immaginare quale sia l’appeal che Jordan Peterson esercita. Soprattutto sui millennial. Non sono solo le sue idee. Sono i mezzi attraverso cui le diffonde (Youtube, Facebook, podcast). In Instagram, da tempo il social preferito dai millennial, Peterson conta più di quattrocentomila follower.
È il suo stesso personaggio ad essere “pop”. Partecipa a show come quelli di Joe Rogan, un comico-wrestler, di enorme successo tra i giovani americani, dove ha la possibilità di diffondere le proprie idee: il podcast di Rogan è scaricato da milioni di persone ogni mese.
E le testimonianze che vengono diffuse in internet dalle persone che hanno letto il suo libro sono moltissime. Peterson dice di avere ricevuto più di trentacinque mila lettere di affetto. I suoi fan – attraverso semplici “regole” come “pulisci la tua stanza” o “tieni la schiena dritta” – sono stati motivati nelle loro battaglie contro la dipendenza dalle droghe, dall’alcool, dalla pornografia, dai videogame; molti dicono di avere cominciato una vera e propria nuova vita.
A queste persone, affamate di una spiegazione per comprendere il mondo che le circonda e farvi fronte – e forse anche alla ricerca di “colpevoli” – Peterson offre un’alternativa. Questa è la ragione della pericolosità che alcuni suoi critici leggono nelle sue prese di posizione. Il suo personaggio, così adatto alla società dello spettacolo, riesce ad arrivare con le sue idee dove la politica non arriva più: al cuore e alla testa delle persone.

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