Putin a Belgrado. Per restarci

Il presidente russo inizia oggi una visita che sembra segnare la svolta nei rapporti con la Serbia: se il Paese balcanico riconosce status diplomatico alla base di Nis, Mosca garantirà una lunga serie di interventi nelle infrastrutture e in economia
GIUSEPPE ZACCARIA
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Vladimir Putin domani torna in Serbia per una visita di stato che a giudizio di molti sta per segnare una svolta storica nella situazione politica dei Balcani e il cui punto focale si colloca un centinaio di chilometri a sud della capitale, dalle parti di Nis.

Là, dal 2012, è in funzione un centro per la protezione civile regionale che lavora con istruttori russi e aerei ed elicotteri antincendio di produzione russa. Fino a oggi le cose hanno funzionato piuttosto bene, da Nis sono partiti interventi che si sono rivelati efficaci anche per i Paesi vicini, e qualche mese fa i russi hanno istruito anche i vigili del fuoco ungheresi sul recupero di persone che in caso di calamità rimangono intrappolate sotto le macerie. Ma, come si sarà intuito, la politica internazionale pensa a tutto tranne che alla protezione civile.

Il problema è ben altro: sono anni che Mosca chiede di riconoscere al personale della base lo status diplomatico, e altrettanti anni che tutti i governi e i servizi di sicurezza occidentali si oppongono a una mossa del genere, sostenendo che questo aprirebbe la strada a una vera e propria centrale di attività militari e di spionaggio nel cuore dell’Europa (e poco male se un po’ più a sud lavora indisturbata la gigantesca base di Bondsteel, centrale americana in territorio kosovaro).

Adesso, come tutte le questioni rimaste troppo a lungo in sospeso, quella dello “status” dei russi a Nis arriva di colpo a maturazione e se, come tutto lascerebbe ritenere, domani il presidente serbo Aleksandar Vučić riconoscesse ufficialmente la funzione svolta dal grande fratello slavo, allora forse si chiuderebbe quello che per il suo Paese è stato un ventennio di patimenti.

La visita sarà certamente vettore di sviluppo nelle relazioni fra i nostri due Paesi – dichiara l’ambasciatore russo a Belgrado, Aleksandar Chepurin – ci confronteremo su una vasta gamma di argomenti e firmeremo un serie di accordi bilaterali per stimolare una cooperazione ulteriore.

Si partirà da un contratto per l’ammodernamento delle ferrovie e da una diminuzione del prezzo del gas russo, da cui l’economia serba dipende. Ma in pratica questa visita sembra destinata a segnare la svolta che molti serbi attendevano da tempo: anziché sperare, attanagliata dalla fame, in un improbabile ingresso nell’Unione europea, Belgrado sceglie di collocarsi apertamente nell’area di influenza di Mosca. E se le cose andranno davvero così, per Vladimir Putin si tratterebbe di un successo clamoroso, per giunta ottenuto con una campagna di aumento di influenza “low cost”.

Putin celebra il natale ortodosso il 7 gennaio scorso

Mentre i singoli Paesi occidentali e l’Unione europea hanno continuato a dispensare alla Serbia aiuti a pioggia (quasi dodici miliardi soltanto nel 2015 se si sommano prestiti, investimenti e incentivi al commercio) Mosca ha continuato a offrire ai fratelli ortodossi danaro con il contagocce, unito però a veri e propri interventi strategici. La Naftna Industrija Srbije, per esempio, spina dorsale del Paese, è passata alla Gazprom russa a un prezzo simbolico e da allora continua a macinare utili, mentre il 75 per cento delle forniture nazionali di gas arriva attraverso di essa.

Quando poi si è trattato di rafforzare la vetusta aeronautica militare di Belgrado, Mosca ha “donato” una mezza dozzina di jet MiG-29, che abbisognano di riparazioni per quasi duecento milioni di euro da compiere in Russia, ma intanto hanno commosso il piccolo e capriccioso alleato (“quando ho visto gli aerei mi è quasi venuto da piangere”, è stata la dichiarazione di Vučić).

Aleksandar Vučić a colloquio con Putin al Cremlino, 26 maggio 2016.

Dunque, la campagna di avvicinamento panslava è andata avanti silenziosa e metodica, proprio mentre quella occidentale procedeva a sbalzi fra grandi annunci seguiti da ritrattazioni, segnali di apertura alternati a mezzi ricatti (“se volete entrare nella Ue dovete riconoscere il Kosovo indipendente”). Mosca e Belgrado, è vero, hanno in comune la fede ortodossa e l’alfabeto cirillico, ma dai tempi della rottura di Tito con Stalin prima la Jugoslavia e poi la Serbia hanno sempre guardato verso Occidente. O forse, ormai, dovremmo dire “avevano”.

Per l’arrivo dell’illustre ospite e protettore, Aleksandar Vučić ha preparato una scenografia imponente: per giovedì si prevede una cerimonia dinanzi alla cattedrale del santo Sava (costruita con contributi russi) a cui dovrebbero assistere almeno settantamila persone. Anche da questo punto di vista la visita è provvidenziale: a Belgrado e nelle principali città di Serbia sono ormai otto settimane che ogni sabato la gente scende in piazza per protestare, e la settimana scorsa sono stati in più di centomila in tutto il Paese a scandire slogan come “Vučić ladro” e “Serbia svegliati”.

Adesso, la massiccia accoglienza popolare per il grande amico russo può servire anche a stemperare le tensioni interne.

Nel frattempo le due parti si sono scambiate segnali che non avrebbero potuto essere più incoraggianti: Putin ha insignito Vučić dell’Ordine di Aleksandr Nevskij, onorificenza che non veniva accordata a un cittadino serbo da più di cent’anni, mentre nel Paese ospitante c’è chi ha deciso addirittura di intitolare una chiesa a Vladimir Putin. Accade nel villaggio di Banstol, nel nord-est del Paese, dove è stato appena ultimato un tempio ortodosso in stile russo, con volte tondeggianti e colorate. Chi l’ha fatto costruire si chiama Branko Simonović e dice che l’uomo a cui ha voluto dedicare l’opera

è il simbolo della nuova Russia che si è levata, nella quale i serbi hanno cominciato a credere di nuovo.

Magari, a partire da domani.

Putin a Belgrado. Per restarci ultima modifica: 2019-01-15T21:30:37+01:00 da GIUSEPPE ZACCARIA
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