Vladimir Putin domani torna in Serbia per una visita di stato che a giudizio di molti sta per segnare una svolta storica nella situazione politica dei Balcani e il cui punto focale si colloca un centinaio di chilometri a sud della capitale, dalle parti di Nis.
Là, dal 2012, è in funzione un centro per la protezione civile regionale che lavora con istruttori russi e aerei ed elicotteri antincendio di produzione russa. Fino a oggi le cose hanno funzionato piuttosto bene, da Nis sono partiti interventi che si sono rivelati efficaci anche per i Paesi vicini, e qualche mese fa i russi hanno istruito anche i vigili del fuoco ungheresi sul recupero di persone che in caso di calamità rimangono intrappolate sotto le macerie. Ma, come si sarà intuito, la politica internazionale pensa a tutto tranne che alla protezione civile.
Il problema è ben altro: sono anni che Mosca chiede di riconoscere al personale della base lo status diplomatico, e altrettanti anni che tutti i governi e i servizi di sicurezza occidentali si oppongono a una mossa del genere, sostenendo che questo aprirebbe la strada a una vera e propria centrale di attività militari e di spionaggio nel cuore dell’Europa (e poco male se un po’ più a sud lavora indisturbata la gigantesca base di Bondsteel, centrale americana in territorio kosovaro).
Adesso, come tutte le questioni rimaste troppo a lungo in sospeso, quella dello “status” dei russi a Nis arriva di colpo a maturazione e se, come tutto lascerebbe ritenere, domani il presidente serbo Aleksandar Vučić riconoscesse ufficialmente la funzione svolta dal grande fratello slavo, allora forse si chiuderebbe quello che per il suo Paese è stato un ventennio di patimenti.
La visita sarà certamente vettore di sviluppo nelle relazioni fra i nostri due Paesi – dichiara l’ambasciatore russo a Belgrado, Aleksandar Chepurin – ci confronteremo su una vasta gamma di argomenti e firmeremo un serie di accordi bilaterali per stimolare una cooperazione ulteriore.
Si partirà da un contratto per l’ammodernamento delle ferrovie e da una diminuzione del prezzo del gas russo, da cui l’economia serba dipende. Ma in pratica questa visita sembra destinata a segnare la svolta che molti serbi attendevano da tempo: anziché sperare, attanagliata dalla fame, in un improbabile ingresso nell’Unione europea, Belgrado sceglie di collocarsi apertamente nell’area di influenza di Mosca. E se le cose andranno davvero così, per Vladimir Putin si tratterebbe di un successo clamoroso, per giunta ottenuto con una campagna di aumento di influenza “low cost”.
Mentre i singoli Paesi occidentali e l’Unione europea hanno continuato a dispensare alla Serbia aiuti a pioggia (quasi dodici miliardi soltanto nel 2015 se si sommano prestiti, investimenti e incentivi al commercio) Mosca ha continuato a offrire ai fratelli ortodossi danaro con il contagocce, unito però a veri e propri interventi strategici. La Naftna Industrija Srbije, per esempio, spina dorsale del Paese, è passata alla Gazprom russa a un prezzo simbolico e da allora continua a macinare utili, mentre il 75 per cento delle forniture nazionali di gas arriva attraverso di essa.
Quando poi si è trattato di rafforzare la vetusta aeronautica militare di Belgrado, Mosca ha “donato” una mezza dozzina di jet MiG-29, che abbisognano di riparazioni per quasi duecento milioni di euro da compiere in Russia, ma intanto hanno commosso il piccolo e capriccioso alleato (“quando ho visto gli aerei mi è quasi venuto da piangere”, è stata la dichiarazione di Vučić).
Dunque, la campagna di avvicinamento panslava è andata avanti silenziosa e metodica, proprio mentre quella occidentale procedeva a sbalzi fra grandi annunci seguiti da ritrattazioni, segnali di apertura alternati a mezzi ricatti (“se volete entrare nella Ue dovete riconoscere il Kosovo indipendente”). Mosca e Belgrado, è vero, hanno in comune la fede ortodossa e l’alfabeto cirillico, ma dai tempi della rottura di Tito con Stalin prima la Jugoslavia e poi la Serbia hanno sempre guardato verso Occidente. O forse, ormai, dovremmo dire “avevano”.
Per l’arrivo dell’illustre ospite e protettore, Aleksandar Vučić ha preparato una scenografia imponente: per giovedì si prevede una cerimonia dinanzi alla cattedrale del santo Sava (costruita con contributi russi) a cui dovrebbero assistere almeno settantamila persone. Anche da questo punto di vista la visita è provvidenziale: a Belgrado e nelle principali città di Serbia sono ormai otto settimane che ogni sabato la gente scende in piazza per protestare, e la settimana scorsa sono stati in più di centomila in tutto il Paese a scandire slogan come “Vučić ladro” e “Serbia svegliati”.
Adesso, la massiccia accoglienza popolare per il grande amico russo può servire anche a stemperare le tensioni interne.
Nel frattempo le due parti si sono scambiate segnali che non avrebbero potuto essere più incoraggianti: Putin ha insignito Vučić dell’Ordine di Aleksandr Nevskij, onorificenza che non veniva accordata a un cittadino serbo da più di cent’anni, mentre nel Paese ospitante c’è chi ha deciso addirittura di intitolare una chiesa a Vladimir Putin. Accade nel villaggio di Banstol, nel nord-est del Paese, dove è stato appena ultimato un tempio ortodosso in stile russo, con volte tondeggianti e colorate. Chi l’ha fatto costruire si chiama Branko Simonović e dice che l’uomo a cui ha voluto dedicare l’opera
è il simbolo della nuova Russia che si è levata, nella quale i serbi hanno cominciato a credere di nuovo.
Magari, a partire da domani.

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