C‘è qualcosa di nuovo oggi nei musei italiani e romani in particolare. Le premières assolute, le “contaminazioni” di generi, il fascino segreto di giustapposizioni potenzialmente scandalose, sembrano risvegliare lo stupore sopito e una certa curiosità di certi “incontri-scontri” fino ad ora quasi narcotizzata da decenni di “mostre dei mostri” impressionisti. Ecco, dunque, Mario Schifano tra i misteri degli Etruschi al Museo di Villa Giulia a Roma, ecco allora l’esposizione (da poco conclusa) di sculture di Picasso tra i sacri marmi del Bernini nelle severe sale della Galleria Borghese.
“Basta, quindi, con gli Impressionisti!”. In realtà la “sacrilega” frase non è stata ancora pronunciata (forse lo fu agli esordi del movimento, tra gli scandalizzati visitatori del Salon des Refusés e, più tardi, del Salon d’Automne). Ma le ultime scelte dei responsabili di alcuni musei romani fanno pensare non tanto a provocazioni quanto, probabilmente, a un ben preciso orientamento di una nuova politica museale. E, a giudicare dal coro di approvazione da parte degli addetti ai lavori e al successo di affluenza, ci aspettano probabilmente altre sorprese.
“Contaminazioni” e premières di lusso se ne sono già avute a Londra, a New York e non solo. In Italia, Milano ci ha già provato e l’aristocratica Ferrara ha dato spazio, in prima assoluta in Italia, ad un magnifico pittore spagnolo del tardo Ottocento e primo Novecento, Joaquin Sorolla e, quest’anno, al verismo del pre-impressionista classico Gustave Courbet, in un Palazzo dei Diamanti sempre affollato e dove ora si pensa ad un ampliamento della struttura, “sciagurato” progetto denunciato col consueto vigore da Vittorio Sgarbi, ferrarese doc.
Frattanto alla Galleria Nazionale d’arte Moderna (Gnam) di Roma, si sta per concludere il doveroso omaggio a Mimmo Rotella (a cento anni dalla sua nascita) artista noto per i suoi strazianti décollage, gli strappi su ordinari manifesti pubblicitari “inferti” dall’autore una prima volta in strada e poi nel suo studio d’arte. L’effetto travolgente di quest’arte gridata e ferita è sottolineato da un allestimento in cui in un unico salone (per quanto grande) sono riuniti ben centosessanta opere del maestro calabrese, in una affollatissima serialità bidimensionale che sembra agire da moltiplicatore dell’impatto provocato dai manifesti. Una soluzione voluta dal critico Germano Celant, coraggiosa iniziativa che ha provocato consensi e anche qualche critica, come ha potuto appurare chi scrive.
Marilyn Monroe, il presidente Kennedy, Ingrid Bergman e Humphrey Bogart, uniti nel triste epilogo di “Casablanca”, protagonisti di quelle affiches i cui strappi non riescono a nascondere frammenti di altri manifesti, di altre vite, diremmo quasi di altri inconsci “come insiemi infiniti”, per citare Ignacio Matte Blanco. Ma, senza disturbare il grande psicoanalista cileno, risulta con chiarezza come la “cifra” della mostra-omaggio a Mimmo Rotella sia lo “stupore”, inteso in senso quasi clinico, e come il visitatore si senta stretto in una dimensione di quasi claustrofobica meraviglia.
Si avverte insomma l’impressione che si stia muovendo qualcosa nel mondo dell’offerta d’arte. La certezza, o quasi, che i curatori e i direttori della varie gallerie abbiano finalmente gettato un sasso nello stagno di alcune decennali certezze. Nel salone dedicato a Rotella, si è in effetti pervasi da quell’imprecisata emozione che si nasconde tra la fine di una gioia e l’inizio di un dolore. Una sensazione che si è provata anche in passato con i grandi della cartellonistica, da Toulouse-Lautrec ai nostri Marcello Dudovich e Sandro Symeoni fino ad Alberto Sughi.
Ma, nel caso di Rotella, è il manifesto stesso il medium e il messaggio su cui lavorare per riportare alla luce ciò che della vita intuiamo ma non conosciamo. Paradossalmente, come di fronte al celebre quadro di Edouard Manet sulla fucilazione dell’Imperatore Massimiliano, in Messico, ammirando i manifesti strappati di Rotella ci si sente persi, rapiti da quell’istante di eterna immobilità che precede la fine.
Una bellissima considerazione di Mimmo Rotella, riportata nel bel catalogo della mostra, ci sa dire infine più di tante parole e di tante critiche cosa si nasconda dietro l’arte del Maestro calabrese.
Quando è nato il “décollage” – scriveva l’artista – io esponevo anche il retro del manifesto, per cui compariva anche il colore del muro scrostato. Mi piaceva la materia sottoposta alle intemperie, mi piaceva poterla prendere così com’era e mostrarla. Era il furto della realtà.
Ecco. Il furto della realtà.
Nell’immagine di apertura Mimmo Rotella, Matrix (dettaglio), 2004, Collezione privata, Milano.

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