Ho sentito il disagio dei quarantanove esseri umani in cerca di un porto per il corpo e la mente in quel Mediterraneo che fu luogo di confronto e ventre gestante di civiltà. E lo sento forte anche ora, quando quegli sfortunati hanno finalmente trovato accoglienza, vedendo il loro possibile destino nel volto di qualcuno che mi chiede aiuto mentre giro per la città.
Mi domando se esiste un principio comune di riferimento tra la pietas che invoca il soccorso e il gesto politico che non riconosce l’umanità dell’altro, non diventa forza dell’altro, lingua comune. Perché l’umanità, della cui esistenza non si può dubitare, non consente di sottovalutare che nell’eccezionalità della misura presa in virtù del fatto circostanziale del pericolo della vita dei migranti, c’è una valenza discrezionale che paradossalmente ingrandisce la portata della decisione che rimane invece un corpo estraneo all’ideologia della “sicurezza nazionale” o del “prima i nostri” corredato dal solido muro trumpista contro i migranti latinoamericani, il nuovo “soldato” Bolsonaro del Brasile, l’Argentina dell’ineffabile Macri e l’Europa dei sovranisti e nazionalisti, che non si capisce quale patria vogliano proteggere.
Nel vociare scomposto di questi confusi eroi del nostro tempo, giunge molto opportuno, perciò, il messaggio del Papa alla diplomazia che assume una grande rilevanza politica oltre che culturale perché è voce responsabile di un capo di stato di cui è bene farsi portatori in nome del principio della sacralità della vita che non può essere circoscritto ad una semplicistica questione morale, ma deve affermarsi come principio fondamentale di ogni progetto di convivenza. Perché il messaggio animato dall’amore e anche dalla fede, quale che sia, è necessario, ma non è sufficiente se resta patrimonio esclusivo di un credo fideistico che è una condizione in cui corre il pericolo di indebolirsi se non si congiunge con la forza convinta della laicità con cui può coltivare la coscienza civile dell’uomo e la sensibilità che guida le scelte oltre le miopi convenienze circostanziali.
Per rendere il principio un collante della vita sociale o comunque una sua componente, è necessario portare la sensibilità personale oltre il confine della contingenza – che è un modo di collocarsi nel mondo – nella convinzione che questo spazio limitato è espressione della costrizione e della paura che sono gli ostacoli contro cui lottano la conoscenza e la libertà, che sono conquiste e fattori decisivi per ridefinire indirizzi soprattutto in questa fase di assenza di visioni e di orientamenti collettivi.
L’umanità ha bisogno di regole chiare in materia di giustizia evitando il più possibile che siano discrezionali, perché in tale veste sarebbero funzionali al principe e inefficaci se separate dall’intangibilità della vita e dalla solidarietà necessaria che della giustizia definiscono il senso sulla base dell’uguaglianza. E si tratta di un patrimonio che non può essere di nessun paese che non affermi ciò come principio di convivenza: non è possibile essere portatori di un valore senza averne cura e rispetto.
Credo, perciò, che sia molto opportuna una riflessione sul bene e sul male intesi non solo come grandi contenitori di principi morali, ma come ragioni laiche che riportano alla forza della vita sociale che si afferma proprio sull’idea di giustizia e non solo della fede religiosa, quale che sia, proprio nel senso indicato dal Papa Francesco Bergoglio di percorso che il credo non può riconoscere se non diventa una ragione di vita.
L’idea di giustizia è alla base della polis, della città-stato della Grecia classica di cui Dike, la giustizia nella veste di diritto scritto, è il nume tutelare che va oltre la giustizia personificata da Themis, figura divina de tradizione agricola. Essa è lo spartiacque rispetto al quale il bene e i male acquisiscono senso in funzione di ciò che giova alla città in quanto comunità e ciò che invece apporta danno e disgrazia. Il male è quindi ciò che attenta alla giustizia che trova una sua ragione nell’ordine e nell’equilibrio del cosmo. Il quale, se alterato, si avvale di una terza dea della giustizia, Nemesi, che provvede a rimettere le cose al loro posto.
È il contesto dell’Antigone di Sofocle, che narra dell’infelice Antigone e della nobiltà che porta la fanciulla al sacrificio in nome della giustizia divina; e di Tebe e del suo destino che Creonte, lo Stato, conduce alla rovina perché prescinde dalla comune condizione umana di Eteocle e Polinice e del loro diritto divino alla sepoltura, separando in questo modo la città dall’idea di giustizia che è sostanza dell’ordine cosmico.
Ed è utile cercare una qualche chiarezza nelle acque del quotidiano dove il male non appare solo nell’incertezza di un mare dominato dal vento, ma anche nell’inferno terreno della guerra e delle distruzioni, della miseria, dell’assenza di prospettive, della precarietà della vita, dati con cui devono fare i conti non solo i migranti che vivono situazioni di carenza estrema e di minaccia di vita, come testimonia il VI Rapporto della Caritas italiana ricordando le venti guerre “ad elevata intensità” in corso che coinvolgono quindici paesi, con “crisi violente” che da 148 nel 2011 sono diventate 186 nel 2017.
Ma anche la popolazione che vive all’ombra dell’Ilva o di qualche altra fabbrica che dà lavoro e insieme veleno, dei 1.046 morti sul lavoro segnalati dall’Inail fino a novembre nel 2018, dei quaranta morti dell’autobus precipitato sul viadotto della Napoli-Canosa e di tutte le morti annunciate da un sistema sanitario nazionale condizionato da valutazioni che non hanno molto a che fare con il diritto alla salute indicato dalla Costituzione italiana.
Per un tragico scherzo del destino, il numero 43 accomuna due fatti drammatici e luttuosi accaduti in tempi diversi e in luoghi lontani fra di loro. Mi riferisco alla caduta del ponte Morandi di Genova dello scorso mese di agosto che ha provocato la morte di 43 persone e alla scomparsa di un numero uguale di studenti della Escuela Normal Rural “Raúl Isidro Burgos” di Ayotzinapa, nello stato messicano di Guerreros in settembre del 2014.
Le modalità degli eventi tragici mostrano che essi hanno in comune l’evidenza della morte, le conseguenze dolorose provocate, le responsabilità e le colpe volontarie o preterintenzionali che riportano i due fatti al male inteso come causa – generica, se si vuole – di un evento luttuoso con effetti sulla salute fisica e mentale, che nega e tronca vite e ne altera altre, crea insicurezza, incertezza e paura, stati modulari all’efficacia della giustizia che concorrono alla formazione della coscienza civile e del senso che hanno i cittadini dello Stato.
Dei fatti di Genova è noto. Gli studenti messicani erano in viaggio per Città del Messico a bordo di tre autobus di cui si erano impossessati per sostenere una raccolta di fondi. Durante il viaggio i giovani sono intercettati dalla polizia locale che li attacca brutalmente uccidendone sei e ferendone gravemente altri venticinque. Nella circostanza scompaiono altri 43 ragazzi che non saranno mai più ritrovati. “Orrore”, chiamerà la tragedia il ministro dell’interno messicano insediatosi nello scorso mese di dicembre, a oltre quattro anni dai fatti che sono senza dubbio di grande ferocia e tali da far tremare qualsiasi stato. Si tratta di un orrore che non può essere circoscritto all’atto delittuoso che però il governo del presidente Erique Peña Nieto, allora in carica, liquida cinicamente come una affare finito nelle mani dei cartelli della droga e che i corpi degli sventurati studenti non sono rintracciabili perché sono stati bruciati.
Ma per quanto le morti di Genova non siano ascrivibili ad una qualche mano sanguinaria e si possano configurare nel contesto dell’accidente o dell’incidente, cioè di evento possibile, di un quotidiano dove la morte è nell’ordine delle cose, non è possibile nascondere che le conseguenze pesano come quelle messicane rientrando quindi nella dimensione del male.
C’è da chiedersi come mai sia possibile che un evento che causa le stesse conseguenze umane, possa avere due valutazioni diverse e se non ci sia del vero in quello che dice la scrittrice catalana Clara Valverde quando afferma che la dittatura uccide, mentre il neoliberismo lascia morire.
Ed è utile, a tal fine, cercare di capire se esiste un qualche nesso, per esempio, tra l’atto – non la pietas di chi sentiva il dolore del male in azione – che salva 49 persone dalle acque insicure del Mediterraneo e il teatrino montato da due ministri del governo italiano, uno dei quali con giaccone della polizia, per accogliere Cesare Battisti, essendo essi nello stesso tempo fonte della legge e immagine della giustizia, e non lo Stato che tratta il condannato come un essere umano che deve scontare una pena.
E ciò va detto non per definire meriti o demeriti, ma per affermare che la giustizia non più riconoscersi in un giustizialismo dileggiante, né in una qualche presunzione che non sia l’affermazione della sacralità della vita e del diritto degli uomini ad avere lo stesso trattamento.
E c’è da domandarsi se il male sia solo l’evidenza dell’orrore della scomparsa o anche ciò che nasconde “l’accidente”, qualcosa con cui si è imparato a convivere avendo rimosso la colpa trasformata in risarcimento, una misura che ha l’eco della confessione introdotta nel 1225 dal papa Innocenzo III che liberò i cattolici dalla colpa/peccato concedendo contestualmente alla chiesa il potere divino della remissione dei peccati.
Ci sono insigni filosofi del diritto come Luigi Ferrajoli che non mancano di entrare nelle commistioni di provvedimenti di legge che creano un vulnus nella giustizia come nel caso nell’istituto del collaboratore di giustizia che nasce dalla legge Cossiga del 1980 per combattere il fenomeno del terrorismo e si estende poi ad altri crimini.
Per quanto possa essere stato efficace per gli scopi che l’hanno promosso, il provvedimento ha sottovalutato tuttavia, la cultura della giustizia che si sarebbe formata con una delinquenza organizzata assoggettata ad una valutazione comunque circostanziale ed eccezionale. Non si può nascondere che la legge ha dato un ruolo politico alla magistratura e un ruolo giudiziario alla politica.
Nessuno, fra l’altro, è in grado di dire con certezza se la legge abbia favorito la normalizzazione o la crescita della cultura paternalista di cui è permeata la macchina dello Stato, cui si è suggerito che il male, confuso con la colpa e il delitto, si possa correggere in corso d’opera. Il vulnus della legge sui collaboratori di giustizia sta appunto nel fatto che il male appare come fattore consustanziale ai meccanismi dell’agire e non si può affrontare prima che abbia prodotto gli effetti; il suo superamento avviene con l’ammissione della colpa che agisce come la dea Nemesi. È una configurazione che presuppone poteri occulti contro i quali non è possibile operare.
La politicizzazione della giustizia comporta inevitabilmente un indebolimento della politica e di conseguenza l’indebolimento dello Stato che qualcuno propone di risolvere con la revisione della Costituzione e una sua riforma in chiave presidenziale. È in realtà una visione che non addebita il funzionamento inadeguato dello Stato all’incrocio insostenibile di interessi in conflitto tra di loro e con le ragioni degli esclusi, e che continua a credere in uno sviluppo inarrestabile capace di creare e distribuire la ricchezza, ma in realtà prigioniero di un sistema economico che trova una ragione solo in se stesso.
Io credo che sia necessario far crescere una partecipazione popolare più consapevole con un dialogo tra visione e competenze, cioè tra politica e conoscenza, ma anche congruità tra senso civico e onestà intellettuale, con leggi che rendano chiari i rapporti fra i segmenti dello Stato e ne impediscano la pratica conflittuale come è accaduto tra il governo e la capitale, e restituiscano allo Stato la dignità di organo super partes.
Credo che il compito fondamentale della politica sia quello di affrontare il grave pericolo dell’irrazionalità delle scelte su grandi problemi – energia e ambiente, in primo luogo – sempre più soggette alle competenze della tecnica e che la politica non è in grado di valutare come dimostra la vicenda del MoSE, un’opera che tradisce le aspettative della salvezza di Venezia, non solo per i maneggi delittuosi della politica, ma anche per l’agire della scienza che ha proposto un’opera della cui efficacia non v’è certezza.
La cecità della politica crea vuoti che vengono occupati da personaggi che cercano solo voti e da istanze troppo appiattite sulle problematiche del disagio diffuso che per quando grave e reale non può prescindere da un progetto che sia un sistema di convivenza e una visione del mondo, che sono fondamentali per riunire conoscenze, energie, entusiasmi e speranze.
E ciò in un tempo in cui la sinistra in quanto forza capace di dare una prospettiva al popolo che crea la ricchezza senza riuscire a possederla, si è disintegrata in uno “sviluppismo” che consegna alla finanza e al capitale un ruolo decisionale incompatibile con i bisogni e le aspirazioni di una umanità che mentre si riconosce nelle infinite potenzialità offerte dalla conoscenza possedendo le capacità necessarie per farne un uso adeguato alla crescita personale e generale, si trova costretta a vivere nei limiti consentiti da un apparato di potere che si occupa prima di tutto della propria conservazione.
La sensazione che ne emerge è che gli ospedali siano per i medici, le scuole per i professori, gli apparati dello stato per i funzionari dei vari livelli, le strutture produttive per i padroni, il potere per quelli che già lo possiedono e la rappresentanza per quelli che sanno rispettare tale logica.
Che fare? È necessario fare chiarezza tra bene e beneficio, tra male e danno e tra tutte le declinazioni che fanno capo all’una o all’altra categoria e concorrono alla formazione del senso civile e di giustizia su cui le società trovano coesione. E fare qualcosa per favorire una cultura di un sentire fatto di “questo non può o non deve accadere” o “questo non posso accettarlo”, “in questa tal cosa non mi riconosco”, e così via. E ciò è compito specifico delle strutture preposte ai processi formativi che sono il mondo in cui il desiderio prende un profilo.
I meccanismi generali del funzionamento della democrazia, non consentono di confondere il male con il danno o addirittura con la colpa e neppure il bene con la pietas che è un alto sentimento capace di riconoscere le conseguenze perverse del male e di rigettarlo. Siamo membri di una società che possiede cose e conoscenza ed è quindi capace di riconoscere il male e impedirgli di agire perché non crei perdite e non procuri lutti. Il male è l’ostacolo della convivenza e la negazione della sacralità della vita che perciò ne sono la misura.
È necessario porre fine all’inseguimento delle cosiddette “cose concrete” che affidano la sorte dell’uomo alle implacabili leggi dell’economia che relativizzano ogni principio vitale a questioni di costi e benefici ritenendo che solo quel metodo può assicurare il benessere. Non ci sono soluzioni complessive e definitive, ma seppur collocabili in una visione necessariamente globale, esse possono essere solo parziali, temporanee e relative a territori omogenei; per quanto gli interessi materiali abbiano peso sulla vita delle società, queste possono funzionare specialmente sul come gli uomini si trovano nelle “cose concrete” che non sono sempre le stesse a tutte le latitudini e neppure un elenco stilato sul criterio di un qualche primato.
L’aspirazione a vivere assieme da cui nasce la città, dimostra che l’ideale del vivere assieme e in pace, è la migliore condizione possibile della vita, la base dello stesso vivere e il modo di evitare che a distruggere l’esistente siano la confusione e il vuoto.
Non si vive nel vuoto, ma in un mondo dove ogni luogo è un progetto possibile, un sistema che permette infinite relazioni. Riflettere è utile e necessario per trovare una collocazione non solo per sentirsi in pace con se stessi, ma per avere la coscienza di esserci e di far parte di una umanità che vede nel male la causa fondamentale della morte mentale e del desiderio. E da ciò, come si fa con la poesia, con la musica, le arti e il pensiero costruire una qualche dimensione che non pensi all’annullamento o all’allontanamento della morte, ma al disegno del viaggio.
Nell’immagine in apertura: Schizzo non datato realizzato da Edvard Munch e ritraente il soggetto urlante de L’urlo.

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