Sei ore e mezza. Tanto è durato martedì scorso il dialogo tra Emmanuel Macron e seicento sindaci riuniti nel piccolo paese di Grand Bourgtheroulde. Sei ore e mezza di domande e risposte tra il presidente delle repubblica e i primi cittadini sui temi più vari: dalle conseguenze della Brexit sulla pesca alla formazione professionale, dalla disabilità alla vecchiaia, dalla casa al referendum di iniziativa cittadina. Un evento che è stato seguito sulle televisioni generaliste da più di un milione e mezzo di persone, per lo più incuriosite dalla tenacia del capo dello stato.
Un’operazione di comunicazione ben riuscita per dare il via al Grand débat national, l’iniziativa “governativa” che fino al 15 marzo dovrebbe coinvolgere i cittadini sui grandi temi politici. Nato in risposta alla mobilitazione dei gilet gialli e alle loro richieste di maggiore coinvolgimento nell’elaborazione delle politiche pubbliche, il Grand débat national era stato annunciato dal presidente delle repubblica il 10 dicembre scorso, in occasione del suo intervento televisivo, dopo le prime manifestazioni di protesta.
Come funziona concretamente? I cittadini sono invitati a organizzare e partecipare a dei veri e propri dibattiti a vari livelli (quartiere, comune, regione, associazioni, ecc…). Molti sindaci e amministratori locali si stanno già attrezzando in questo senso. Verranno creati degli stand di vicinato nei luoghi di passaggio abituale nei quartieri per sollecitare la partecipazione dei cittadini all’iniziativa.
Teoricamente qualsiasi cittadino può decidere di organizzare un dibattito. L’importante è che le proposte scaturite dalla discussione siano inviate via posta o depositate sul sito del Grand débat national. Per aiutare i cittadini che vogliono organizzare i dibattiti, il sito stesso fornisce un “kit metodologico”, una serie di consigli utili per tenere queste riunioni.
I temi su cui i cittadini potranno intervenire sono raggruppati in quattro aree: transizione ecologica, fiscalità, organizzazione dello stato, democrazia e cittadinanza. Lo stesso Macron ha contribuito qualche giorno fa a definire la cornice del dibattito pubblico con la sua lettera ai francesi. E a limitarlo, per quanto poi siano tematiche molto ampie.
Le reazioni della politica al Grand débat national non sono state molto favorevoli, se si esclude ovviamente la posizione dei partiti della maggioranza. L’opposizione, di destra e di sinistra, ha contestato in particolare il metodo. Che non attribuirebbe un reale potere decisionale ai cittadini poiché il dibattito viene limitato a quei quattro ambiti. E poi contestano l’aspetto governativo della consultazione.
Un primo successo di immagine Macron l’ha ottenuto però coi sindaci stessi, riallacciando un legame con una parte di quei corpi intermedi che era stato accusato di trascurare nel suo tentativo di rapportarsi direttamente con i cittadini.
Certo è che su quest’iniziativa Emmanuel Macron sta puntando tutto. Il capo dello stato sa che alle elezioni europee del 2019 si gioca molto del suo mandato e delle possibilità di realizzare le riforme promesse. È lui stesso a definire l’importanza del dibattito nazionale:
Voglio che sia il secondo atto delle politiche che dobbiamo realizzare. Voglio inventare una nuova forma democratica […] Desidero una Repubblica fondata sulla deliberazione permanente.
Chi lo dava per finito deve fare i conti con la perseveranza che l’ha sempre contraddistinto sin dall’inizio della sua avventura politico-elettorale, di cui sembra aver recuperato lo spirito in questi giorni. Che questa rinnovata passione si traduca poi in un successo dell’iniziativa sarà tutto da verificare.
Il Grand débat cerca però di rovesciare il punto di vista che molti cittadini cominciavano ad avere rispetto al suo quinquennat: un’esperienza già conclusa, a nemmeno due anni dal suo inizio. E l’ha fatto tendendo la mano ai gilet gialli. In maniera indistinta ma in realtà parlando soprattutto alla parte più moderata del movimento, forse nel tentativo di dividerlo di fronte ad una possibilità di intervenire concretamente nel dibattito pubblico. Perché secondo le stesse parole di Macron questa crisi rappresenta una chance per riformare più profondamente. Vedremo se il gesto servirà ad abbassare la tensione di queste settimane.
Se il Grand débat fallisce, allora sarà molto difficile per Macron risollevarsi. E i rischi insiti nel processo stesso del débat sono molti: quali soggetti vi parteciperanno? E quanti cittadini? Quali proposte ne scaturiranno? Come le gestirà il governo? Così come pericoloso è anche il tentativo di boicottarlo.
Secondo il politologo Laurence Morel su Le Monde:
I francesi hanno eletto un presidente giovane. Hanno incontestabilmente un presidente capace di innovare. Secondo le parole stesse di Emmanuel Macron, l’iniziativa del grand débat è inedita. Nessun presidente prima di lui aveva convocato i cittadini nel corso del proprio mandato per domandare il loro consiglio sulle politiche da seguire.
Di solito i presidenti, secondo Morel, erano soliti agire attraverso lo strumento del referendum, da De Gaulle a Mitterrand. Ma per Morel:
[…] la differenza è che il referendum richiede di rispondere sì o no ad una domanda chiusa […] Macron si rivolge ai francesi ponendo loro delle domande aperte, alle quali non devono rispondere con un sì o un no ma con quello che vogliono. E a partire dalle risposte ottenute, il presidente formulerà le proprie risposte politiche (‘un nuovo contratto per la Nazione’). O forse altre questioni che potrebbero essere sottoposte a referendum.
La decisione singolare di Macron di trasformare il paese nella “Repubblica della deliberazione permanente” mette in luce però un altro aspetto. Semmai avessimo bisogno di altre prove, il tragico destino dei partiti tradizionali è lungi dall’essere superato e forse irrimediabilmente avviato a compiersi. Non sono più i partiti infatti ad organizzare i bisogni dei cittadini e a trasformarli in domande politiche. È sufficiente il rapporto diretto tra l’eletto e gli elettori.
L’ha fatto notare anche il sociologo Albert Ogien su Libération:
Come in altre democrazie rappresentative, la Francia comincia a sperimentare un’inversione: non sono più gli stati-maggiori dei partiti che formano l’opinione pubblica e la strutturano nei termini da loro fissati, ma i cittadini che cercano di darsi un’organizzazione che permetta di soddisfare le loro aspirazioni costituendo dei movimenti autonomi e plurali.
Per questo, secondo Ogien, il legame tra il partito di Macron, Mélenchon e i gilet gialli è più stretto di quanto si possa pensare: sono tutti e tre figli di quest’inversione di tendenza, nata dalla crisi dei partiti tradizionali.
Si badi bene: crisi che è in primis responsabilità dei partiti tradizionali che non hanno saputo far fronte ai fattori di cambiamento internazionali, sociali ed economici avvenuti in questi ultimi decenni.
Vero è che le “soluzioni” sembrano oggi in grave difficoltà. Emmanuel Macron – ma così anche Matteo Renzi o Jeremy Corbyn – è l’espressione di questa crisi e dei tentativi dei partiti e della classe politica tradizionale di riformarsi per poter sopravvivere. Poco importa in quest’analisi che per sopravvivere ci si sposti al centro o a sinistra. È l’adozione di una delle premesse del populismo che accomuna molti dei nuovi leader: l’élite al potere si è separata dai cittadini e serve nuova linfa per poter soddisfare le loro giuste domande. È l’accettazione di questi elementi di fondo che consente di parlare di una sorta di “populismo democratico”. A cui dovremmo anche aggiungere la ricerca del rapporto diretto tra leader e “popolo”, così come un’estrema semplificazione della questioni politiche.
Come Matteo Renzi prima di lui, Macron incorre però nelle conseguenze nefaste del “populismo democratico” che hanno utilizzato per imporsi sulla vecchia classe politica, nel tentativo di “salvarla” e, en même temps, come ama ripetere il presidente francese, coniugare il messaggio populista democratico al riformismo.
Perché, se è vero che Macron, come Renzi, sconta certamente propri errori ed enormi ingenuità comunicative, è il “movimento” che ha cavalcato che rischia di travolgerlo. Anche se chi ha votato Macron magari non è presente nel movimento dei gilet gialli, il messaggio lanciato nella campagna elettorale andava proprio in direzione del cambiamento radicale. Tanto che lo stesso Macron poteva dichiarare al Journal du dimanche durante la campagne per le presidenziali:
Se essere populista significa parlare al popolo in maniera comprensibile […] voglio essere un populista. Da questo punto di vista il generale de Gaulle lo era. Ma non bisogna confonderlo con la demagogia che consiste nell’adulare il popolo nei suoi desideri più bassi. Dunque definitemi populista se volete. Ma non sono un demagogo.
Se si accetta parte della narrazione “populista” di una separazione tra élite e popolo, come culturalmente in antitesi tra loro, il rischio è la creazione di un clima di delegittimazione difficile da gestire. Come sta accadendo in Francia.
Meglio tornare ai vecchi partiti quindi? È davvero possibile nelle nostre società “atomizzate” tornare ai partiti politici di massa? È una vana speranza. Dovremmo invece cercare di non dimenticarci delle lezioni apprese in questi anni. Perché tra il populismo estremista e a tratti autoritario e quello democratico-solipsistico che abbiamo sperimentato esistono delle alternative, delle gradazioni differenti.
E forse il nuovo percorso intrapreso da Emmanuel Macron col Grand Débat national e la volontà di trasformare la Francia nel paese della deliberazione permanente potrebbe rappresentare una novità.

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