Sandro Penna. La targa e la memoria, così Roma ritrova la sua storia

A quarantadue anni dalla sua scomparsa, sulla facciata del civico 28 in via della Mola de' Fiorentini, il ricordo del poeta perugino vissuto a Roma in una umile casa e in uno stato di semi-povertà, aiutato dai vicini e dai molti amici che gli facevano visita in quella sorta di antro disordinato, stracolmo di libri e di tele
MARIO GAZZERI
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In quest’inverno del romano scontento, due recenti “bagliori” sembrano avere momentaneamente interrotto il precipitoso declino di Roma, illuminando di speranza ed ottimismo questa città di “favola” oggi trasformatasi in alcune zone quasi in una “favela”. Due piccoli gesti tesi a salvaguardare non solo la memoria ma l’anima stessa della Capitale. Parliamo della ricollocazione, quasi a tempo di record, delle pietre d’inciampo (le Stolpersteine dell’artista tedesco Gunter Demnig) che ricordano il sacrificio delle famiglie israelite dei Pavoncello, dei Di Consiglio, dei Di Castro e di tante altre deportate e trucidate dai nazisti; sampietrini dorati in superficie, divelti di notte da un ignoto ladro di memorie, probabilmente perseguitato da maniacali ossessioni antisemite (anche se, secondo le cronache, la polizia parrebbe privilegiare la pista del furto su commissione da parte di sedicenti “collezionisti”, la sostanza non cambia di molto: “ebrei senza pace”). A questo episodio di buon augurio, si aggiunge un secondo segnale di una possibile nuova alba di civiltà nella città eterna dalle cento stratificazioni storico-culturali: lo scoprimento, proprio in questi giorni, di una targa in memoria di Sandro Penna, cantore delle segrete sfumature di amori rubati. Poeta umbro ed umbratile che si ritraeva in questi malinconici versi,

E poi son solo. Resta

la dolce compagnia

di luminose ingenue bugie.

E dunque, a quarantadue anni dalla sua scomparsa, una targa sulla facciata del civico 28 in via della Mola de’ Fiorentini (in pieno centro barocco) ricorda che il perugino Penna visse a Roma in una umile casa (poco più di una stanza) e in uno stato di semi-povertà, aiutato dai vicini e dai molti amici che gli facevano visita in quella sorta di antro disordinato, stracolmo di libri e di tele. Moravia, Elsa Morante, Guttuso e nei primi anni anche Curzio Malaparte. Ma soprattutto Pasolini, amico di una vita, e i pittori della seconda scuola romana (Schifano e Dorazio tra gli altri) attratti fors’anche dal candore di quella povertà che, come in uno specchio, si rifletteva nella francescana semplicità dei suoi versi. Semplicità che, al suo massimo livello, sembra sfiorare l’inarrivabile perfezione.

Negli anni Cinquanta e Sessanta, quando gli omosessuali venivano definiti “invertiti” nella volgarità dell’Italia ipocrita e democristiana, Penna seppe cogliere la luce degli “amori contrari”, la tenerezza degli adolescenti nell’anonimità delle stazioni, nell’oscurità dei cinema di quelle periferie romane che tanto avrebbe amato anche Pasolini. I versi sono sogni, linguaggio di inesplorati inconsci, tradotti da Penna in limpidi acquerelli d’amore. Sulla targa di via della Mola de’ Fiorentini, Penna viene ricordato con il più breve e forse intenso dei suoi componimenti che ne sintetizza l’aerea cifra poetica,

Io vivere vorrei addormentato

entro il dolce rumore della vita.

Il poeta perugino costituisce un unicum nella storia della poesia italiana del Novecento. Versificatore trasognato, è stato a volte accostato a Umberto Saba o ai lirici greci o anche, per la sua poetica dolorosamente innocente e minimalista, a Giovanni Pascoli. Ed è forse con il poeta romagnolo di Myricae e dei Canti di Castelvecchio che alcuni credono di intravedere qualche “assonanza”, soprattutto quando il Pascoli “si abbandona alla contemplazione pura del firmamento”, come scriveva Pasolini (Antologia della lirica pascoliana, Einaudi) che accosta poi il poeta romagnolo al Virgilio delle Georgiche per il “tono favoloso che dà a una realtà divenuta tutta memoria”. Ma forse costoro si sbagliano. Quello di Penna è un versificare diverso, un ponte magico tra il sogno del dormiveglia e il trasecolato stupore del ricordo

Un sogno di bellezza un dì mi prese

ero fra calda gente in un caldo paese

e, ancora

Passano i buoi pesanti con l’aratro

nella gran luce. Chiudimi in un bacio

Quasi degli “haiku”, istantanee di poesia che, con i suoi “buoi pesanti con l’aratro”, rimanda anche alla nostalgia pasoliniana di un’Italia agreste e, visivamente, ai quadri dei primi Macchiaioli e di Giovannni Fattori.

Malato nel meriggio in un solfeggio

di monete che battono il selciato.

Su questo letto quali dolci fichi

nel sole delle donne indi appassiti.

Biancore di letti e di adolescenti, malinconie di amori finiti… E Penna scrive,

Forse la giovinezza è solo questo

perenne amare i sensi e non pentirsi,

per poi tornare al già visitato, musicale ritmar del tempo:

Amore in elemosina solfeggio,

Oh luce del meriggio senza un cenno,

Ritornerà più tardi, ricco d’ali

L’incendio dei ricordi personali.


Una toccante apparizione di Sandro Penna nel film di Mario Schifano “Umano non Umano” del 1972.

Sandro Penna. La targa e la memoria, così Roma ritrova la sua storia ultima modifica: 2019-01-23T20:03:05+01:00 da MARIO GAZZERI
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1 commento

stefano 23 Luglio 2019 a 16:51

Grazie di aver ricordato il grande sandro penna,io abitavo a centro metri da casa sua lo conoscevo era un grande,spero di conoscerla buon tutto

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