In una sua storica lettera a George Bernard Show, nel 1935, lord Keynes così descrive i suoi colleghi economici:
geometri euclidei in un mondo non euclideo, i quali scoprendo che nell’esperienza concreta due rette apparentemente parallele spesso s’incontrano sgridano aspramente le linee stesse per la loro incapacità di andare diritte.
È una fulminante spiegazione che potrebbe essere adattata perfettamente al dibattito a sinistra. Sicuramente aiuta parecchio a capire perché il congresso della Cgil è stato derubricato da tutti i principali quotidiani a cronaca economica, nelle pagine molto interne. La stessa composizione sul nodo del segretario generale, che pure aveva acceso qualche curiosità, sembra ingrigire ulteriormente l’immagine del sindacato.
La congiuntura del movimento del lavoro è quella che conosciamo, in tutto il mondo.
Le forme organizzative, politiche e sindacali radicate nei sistemi produttivi vivono una fase di assoluta marginalità, proporzionale alla collateralità che proprio il lavoro esprime rispetto ai conflitti che Mariana Mazzucato nel suo ultimo lucidissimo saggio Tutto è valore, ricostruisce fra estrattori, da una parte, e creatori, dall’altra, di valore.
Non ha poi certo aiutato a dare a questo passaggio che ha riguardato pur sempre la principale organizzazione sindacale italiana, con ancora più di cinque milioni e mezzo di iscritti, il fatto che a fronte di una pressocché unanimità sul documento politico, il confronto interno fosse lacerato verticalmente dalle due candidature alla segreteria generale – Maurizio Landini e Vincenzo Colla – che hanno agitato la consultazione congressuale.
Debole, peraltro, era stato fin dall’inizio il contributo dei vertici confederali, che non avevano accompagnato il modesto documento congressuale con interventi in grado di dare smalto al ruolo della Cgil in uno scenario del tutto inedito, in cui per la prima volta il sindacato si trova da una parte privo di ogni sponda politica e dall’altra assediato da processi socio tecnologici che ne mettono in discussione la struttura e l’identità. Relazione congressuale del segretario uscente Camusso, e dibattito plenario non hanno certo impreziosito i contenuti del congresso che è riuscito a rimuovere del tutto, appunto, quella economia non euclidea, come l’avrebbe chiamata lord Keynes, che oggi campeggia nell’intero pianeta.
Quell’accenno – “negoziare l’algoritmo” – che faceva bella mostra sul finire del documento programmatico non ha innestato una vera riflessione di merito dell’apparato sindacale, che ha preferito rifugiarsi nella difesa della pura tecnicalità contrattuale.
Ma, per rimanere sempre alla metafora keynesiana, le rette parallele prima o poi s’incontrano, e i processi di automatizzazione e di comando computazionale del lavoro spostano sempre più di lato il lavoro, come già aveva previsto Karl Marx nei suoi Grundrisse, non a caso l’unico saggio marxista che non è mai citato nelle discussioni sindacali.
Due sono i nodi di fondo che il dibattito ha incontrato e ignorato:
1 Per la prima volta nella storia moderna i processi innovativi e in particolare la configurazione del nuovo potere sociale dominante, quale è appunto il pensiero computazionale, non si realizza nell’ambito del perimetro produttivo. La fabbrica, o comunque l’attività lavorativa, non è più la sede ne il motore dell’innovazione. Dunque interlocutori, figure sociali, e forme del conflitto devono essere completamente ripensate rispetto alla tradizione della contrattazione fra capitale e lavoro.
2 Se questo scenario è confermato allora il sindacato non può continuare ad essere pensato, organizzato e diretto a partire dalla rappresentanza dell’immediatezza sociale, i lavoratori nel posto di lavoro, ma deve ritrovare un nuovo modo di agire della confederalità, ossia della sua organizzazione trasversale sul territorio, per incidere rispetto alla pervasività della potenza di calcolo.
I due temi hanno avuto una propria materialità, costringendo comunque, anche in assenza di un dibattito di merito, i dirigenti sindacali a prendere atto di un cambio radicale di fase e di una scomposizione delle forme e dei luoghi del conflitto sull’innovazione.
Importanti strutture territoriali, come la Camera del lavoro di Milano, rilevanti categorie come i lavoratori della comunicazione e del commercio o il mondo dei pensionati, che è molto più di una semplice federazione verticale, hanno percepito chiaramente il disagio di non avere nella propria cassetta degli attrezzi strumenti e culture adeguate al nuovo conflitto necessario.
Un lungo lavorio di formazione e di documentazione si è articolato in questi ultimi anni, con seminari, forum, sessioni di studio. Un grande lavoro per gli esperti forse, ma i risultati non sembrano incidere politicamente.
Come già un secolo fa, all’avvento di un altro sommovimento che investì il mondo del lavoro, quale fu il taylorismo, e la sociologia di Durkheim, ad esso connesso mediante l’idea che la società si forma da sé, il movimento operaio reagì dando forma non a culture e abilità compatibili con i paradigmi che la tecnica proponeva, ma elaborando una nuova strategia politica, che ribaltava le basi dei nuovi saperi, dando visibilità agli interessi di classe che li animavano e ai meccanismi con cui volevano guidare la società.
Insomma la politica al primo posto fu il modo in cui il lavoro rispose ai tecnicismi del partito degli ingegneri, di cui il taylorismo fu l’ideologia.
Hilferding, con le sue analisi sulla prima smaterializzazione del capitale finanziario, Rosa Luxemburg, con la sua idea di autorganizzazioni autonome oltre la fabbrica di organismi consigliari, e Benjamin, con la sua critica ai miti tecnologici e alle ideologie comunicative, furono due motori di una riconquista della propria autonomia culturale e dunque capacità organizzativa del movimento operaio di quel tempo. Gramsci ebbe l’intuizione, nella sua cella di Turi, di individuare l’avversario proprio nella pedagogia dello scientific management, che, spiegava, “usava la scienza per il raggiungimento di un fine” del tutto avverso a quello del lavoro.
Così allora fu battuta la dittatura degli esperti, che pure si presentò, proprio nel passaggio di secolo fra l’Ottocento e il Novecento, esattamente con la stessa strumentazione ideologica che vediamo messa oggi in campo dal pensiero computazionale monopolista: attacco al primato della politica, dileggio dei partiti, meritocrazia come alternativa alla democrazia, populismi come vaccino rispetto ai conflitti sociali.
Oggi il tornante non è certo dissimile per ambizione dei nuovi interessi tecnologici e portata sociale dei processi innescati. Manca però una lucidità nella visione delle caratteristiche dei fenomeni computazionali e della loro dinamica nei processi di potere. E manca, cosa che a Turi invece muoveva anche un detenuto, la volontà di rimettere in gioco primati e gerarchie acquisite.
La vertenza Amazon, nel centro logistico di Piacenza, condotta da diverse sigle sindacali, di cui la Cgil non è certo la più rilevante, mostra con chiarezza la concretezza del problema.
Nessuna modalità del lavoro di catalogazione, immagazzinamento e distribuzione delle migliaia e migliaia di colli che muove il colosso americano è contrattabile realmente se non si pone al centro del negoziato la logica e la struttura cognitiva degli algoritmi che gestiscono l’intera filiera operativa. Un negoziato che deve basarsi sulla consapevolezza che quel sistema computazionale, guidato da modelli avanzati e dinamici di intelligenza artificiale, non può essere ingabbiato una volta per tutte. Non è il LEM della Fiat degli anni Ottanta, che una volta contrattato nei tempi e nei movimenti per almeno cinque anni rimaneva tale. Gli algoritmi gestionali sono forme mobilissime che vengono rigenerati e implementati giornalmente. Per cui la controparte di Amazon deve avere sistemi, saperi, competenze e dimestichezze per monitorare, e scomporre permanentemente queste nuove implementazioni. Chi lo fa? Come lo fa? Come si organizza e come si decide? Questo era il congresso non euclideo della Cgil.
Vale per Amazon ma vale per il commercio, per i chimici, per gli insegnanti, per la sanità, per la comunicazione. Vale ormai persino per i giornalisti e i medici. L’algoritmo è il principio di autorità che determina tutti gli altri rapporti di produzione, è il padrone dei padroni, come diceva Di Vittorio, senza sconfiggere il quale non si tutelano nemmeno i cafoni.
Nessuno mi pare abbia colto la coincidenza fra il congresso di Bari e l’annuale concilio dei padroni dei padroni a Davos.
Queste rette sono destinate a non incontrarsi mai, se non si trova il modo di far irrompere su quello scenario, a Davos, il conflitto sociale.
Potenza della profilazione, capacità delle psico metriche, sostituzione delle consultazioni democratiche con calcolo delle opinioni, interferenze istituzionali sui data base, automatizzazione delle funzioni legislative. Sono i temi che erano all’ordine del giorno nella località svizzera. Quali gli antidoti? Anche qui esempio banale: in molte città italiane si sta adottando il nuovo standard 5g della comunicazione mobile. Parliamo di un sistema che ha visto già investire, solo per la concessione delle frequenze, circa 6,5 miliardi di euro da parte dei grandi provider telefonici. L’applicazione di questo sistema muterà completamente la forza dei sistemi comunicazionali, e renderà i territori vere e proprie piattaforme multimediali, che ne cambiano sia la mobilità sia la gestione dei servizi sia le stesse relazioni sociali. Chi sta progettando e applicando questa sorta di nuovo piano regolatore delle intelligenze mobili? Il lavoro, la ricerca, le professioni, i consumi, i servizi ne saranno investiti o no e con quali conseguenze? Un sindacato confederale, che vuole essere soggetto politico nel territorio, può disinteressarsi di questo fenomeno?
Questi solo alcuni esempi di un dibattito che non ha avuto cittadinanza a Bari. E la designazione del nuovo vertice sembra per altro rendere ancora più confuso il quadro.
Paradossalmente, proprio Landini, è arrivato a prevalere sullo slancio di una esperienza movimentista che però si teneva al riparo di ogni innovazione culturale e organizzativa, in sostanza si può banalizzare che lo slogan implicito del nuovo leader possa essere la Cgil come una grande Fiom, dove la voce si alza più forte ma non si cambiano mai gli argomenti dello scontro.
Colla, che viene da una trafila tipicamente emiliana, tutta interna a una gestione moderata e di equilibrio, si è mostrato più preoccupato della tenuta di questa Cgil rispetto al nuovo mondo che la sta accerchiando. La diversità dei lavori, e soprattutto i linguaggi sempre più distanti fra le singole figure professionali pongono con forza la drammaticità di una identità unitaria di un sindacato forse già troppo grande per essere unificato. La convivenza fra queste due personalità non è certo impossibile. Ma il punto è capire quale convivenza la Cgil che esce da Bari avrà con l’economia non euclidea? Come potrà riorganizzarsi per inseguire i processi di ricerca ed innovazione che determinano i nuovi assetti sociali? Come potrà rappresentare la contrapposizione fra i monopoli degli algoritmi e le nuove attività creative e professionali che riformulano l’idea di lavoro?
La confederalità potrebbe essere una risorsa, ma non può essere un elemento aggiuntivo se fa tutto quello che si faceva prima e poi s’aggiunge un pizzico di nuova confederalità. Se l’algoritmo è la matrice dei nuovi poteri sociali che riorganizzano i riders come i giornalisti, i consumatori come i distributori, i medici come i pazienti, si dovrà pure immaginare forme di raccolta e organizzazione di bisogni e ambizioni di queste figure sociali, connettendo quello che l’algoritmo divide?
Il rischio è che tutto questo si possa risolvere in una ibridazione di vecchio rivendicazionismo – più uno su tutto – con la moda di un’ondata di pedagogia informatica – grandi seminari per capire come fare quello che Google e Facebook vogliono farci fare.
Come scriveva Gramsci intravvedendo questi nuovi manager della scienza: la lotta sociale e politica si fa guidando il passaggio “dal mondo del pressappoco all’universo della precisione”.
Un passaggio che implica una trasformazione radicale di forme e contenuti, e soprattutto di base sociale, di modelli organizzativi, di gruppi dirigenti. Ancora Gramsci non ci lascia alcuno spazio al galleggiamento:
Non è dai gruppi sociali condannati dal nuovo ordine che si può attendere la ricostruzione, ma da quelli che stanno creando per imposizione e con la propria sofferenza, le basi materiali di questo nuovo ordine: essi devono trovare il sistema di vita originale e non di marca americana per far diventare libertà ciò che oggi è necessità (Quaderno 2179).
Basta leggere.

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