Ringraziamo la Rai che lunedì sera ha mandato in onda la copia restaurata di “Ultimo Tango a Parigi” di Bernardo Bertolucci. A torto o a ragione, dubitando del proprio pubblico, il direttore dei Rai2, Carlo Freccero, ha offerto la visione del film, peraltro indegnamente interrotta da frequente pubblicità, facendolo precedere da una personale prolusione. Freccero ha spiegato in dettaglio il senso profondo del film. Purtroppo pare essere rimasto anche troppo sulla superficie (come la censura?) e ahimè ha visto “vitalità” nel sesso messo in scena e “vendetta” nella scena finale. Come psicoterapeuta questa ingenua interpretazione mi trova in pieno disaccordo.
Ambientato in una Parigi malinconica e quasi astratta dal tempo, città mito per eccellenza degli innamorati, simbolo della licenziosità, del romanticismo, “Ultimo Tango a Parigi” si declina come un manuale, quasi un trattato sulla ineludibile conflittualità della relazione di coppia.
Si è molto parlato degli aspetti trasgressivi del film, concentrandosi sulle scene a contenuto sessuale. A mio parere lo scandalo, la trasgressione, non è per nulla il leit motiv del film, né il sesso unico aspetto “vitale.”
Il film è invece uno scavo psicologico profondo, un trattato sul rapporto di coppia, sulla sua tragicità e sulla sua impraticabilità, spiegandone in sottotraccia anche il perché.
Il film si apre con una immagine molto simbolica dove è impossibile non cogliere la citazione dell’urlo di Munch quando Paul si chiude le orecchie; già lì comprendiamo che di dramma e angoscia si tratterà.
Come spesso avviene, i due si incontrano per caso, e del “caso faranno destino”. Perché al caso offrono una opportunità: lei guarda lui, ne è incuriosita. Il vedersi è la necessaria premessa per dare avvio ad un incontro. Perché dall’incontro si passi alla relazione certo non può bastare il solo vedersi, bisognerà osservarsi, scrutarsi, capirsi. Così come ascoltare è diverso dal sentire.
Paul impone invece che l’incontro e quelli successivi si inscrivano in una desiderata e imposta cecità, tutta psicologica. Non voglio sapere il tuo nome, né la tua storia, non voglio sapere nulla di te. È la richiesta che Paul fa a Jeanne, peraltro a noi già nota attraverso il mito di Amore e Psiche. Lui vuole solo immergersi nell’indistinto, in un indistinto primario, indifferenziato, che funge da anestetico. La sessualità non è per nulla momento vitale. È di fatto cercata, vissuta e voluta come un anestetico, come uno sprofondamento regressivo in quella fusionalità che solo la sessualità o le droghe possono dare all’adulto, nell’illusione di ritrovare un piacere primigenio e allontanarsi dal senso di morte che tutto pervade.
Paul infatti è distrutto da ciò che di fatto rappresenta il fallimento estremo dell’amore e del legame: ovvero il suicidio della moglie, che resta per trama e per definizione antropologica privo di spiegazione. Per affogare la sua depressione, assommata e forse precedente al lutto per la moglie, Paul usa il sesso come anestetico e, sapendolo o non sapendolo (ovvero consciamente o inconsciamente), usa la partner stessa come anestetico. La usa come un oggetto e quindi inevitabilmente usa il suo corpo, strumento di un piacere triviale che di erotico non ha proprio nulla. Usare l’altro pone la relazione in un infernale stato di asimmetria. E qui è il vero peccato. Non il sesso ma propriamente il fatto che se la relazione è asimmetrica non può essere paritaria, pertanto potrà essere solo mortifera.
Fa da contraltare alla visione tragica di Paul della relazione, del legame, del mondo, la visione un po’ maniacale e grottesca del regista dilettante. Anche lui non è immune dall’usare Jeanne per i propri scopi. Se Paul non vuole sapere nulla della biografia, dunque dell’identità di lei, sfuggendo alla intimità della relazione, il fidanzato regista invece si scapicolla per fare storia, narrazione biografica, scimmiottando il ruolo di uno psicoanalista da salotto e violentandola appunto con il suo voler sapere tutto. (Non mi è qui oggi difficile il richiamo ad un tema caro alla psicoanalista Aulanier “la violenza della interpretazione”). Dove dunque il confine tra sé e l’altro dentro una relazione intima? Dirsi tutto? Dirsi nulla? Il regista mette in scena le due polarità, ammonendoci sul fatto che entrambi gli estremi sono l’anticamera del fallimento relazionale.
Man mano che i due si frequentano, si incontrano senza darsi appuntamento, succede ciò che succede a tante coppie. Lui lo ha già sperimentato e se ne è ritratto chiudendosi nella propria visione tragica del mondo, ma lei è giovane e la sua mente è perfetta per idealizzare, anche per mettere in scena un edipo irrisolto o quantomeno la ricerca dell’eroe protettivo e generoso. Lui la ammonisce sulla illogicità e pericolosità delle sue aspettative/proiezioni. Ma ovviamente a nulla serve, il destino deve fare il suo corso.
Sino al momento apice della relazione. L’esercizio del potere e la sottomissione. La tanto vituperata e censurata scena della sodomizzazione altro non è che l’espressione del potere maschile dentro una relazione che comincia ad esistere proprio nel momento in cui, veri o falsi che siano, vengono comunicati ricordi e bisogni, nel momento in cui le idealizzazioni e le proiezioni sono esplicitate. Anche la relazione psicoanalitica del resto inizia quando inizia il transfert. Il corpo di Paul esprime la volontà di sottomettere l’altro attraverso una violenza sessuale che è di fatto violenza psicologica. E se lei lo idealizza, lui invece è o si inventa di essere vittima di genitori che hanno fatto a loro volta violenza, lo hanno maltrattato e lasciato solo. Si presenta al suo primo appuntamento con il gentil sesso imbrattato di merda. È stato, racconta, violentato psicologicamente a sua volta, da un padre maltrattante. Il corpo di Paul esprime la volontà di sottomettere Jeanne attraverso una violenza sessuale, una sodomizzazione non richiesta, che di fatto è violenza carnale ma anche psicologica. Non basta infatti che la violenti col corpo, le impone anche di pensare come lui, di ripetere acriticamente la sua ideologia, di aderire in senso appunto psichicamente “adesivo” al suo pensiero. E la carrellata dall’alto questo ci fa vedere. Ora sono/sarebbero una cosa sola, appiattita al suolo. Ma esiste relazione se si è una sola cosa?
Sarà Jeanne a compiere il destino della coppia dopo l’Ultimo Tango. Cacciati dal locale a causa della loro sgraziata danza, perché non c’è nulla di estetico né erotico nel loro danzare, mentre gli altri danzano il loro tango come simbolo di una estetica dell’equilibrio di coppia, loro si arenano nel conflitto.
È Jeanne che mette in scena il comandamento: se non sei come io ti voglio ti uccido. Non c’è nessuna vendetta (come ha interpretato erroneamente Freccero) della protagonista. C’è piuttosto la constatazione amara della caduta dell’illusione. Quella che attraversano tutte le coppie e che se viene superata apre la strada alla possibilità della relazione simmetrica, dove l’altro è visto per ciò che è e non per ciò che vogliamo e decidiamo che sia.
Jeanne, dopo che le proiezioni mostrano il loro inganno, dopo che incontra Paul per quello che è, “un maître d’hotel”, lo disprezza, l’insulta, non lo riconosce più come il suo eroe. Forse lo vede di nuovo imbrattato di merda. Le diventa immediatamente estraneo, ovvero torna ad essere ciò che era prima dello sguardo sulla passeggiata sul ponte, ovvero uno “sconosciuto”, un estraneo appunto. Perché quando le illusioni cadono, quando l’idealizzazione frana inevitabilmente di fronte alla realtà emerge la verità di chi l’altro è. E, se non ci disponiamo a conoscerlo per quello che è, l’altro ci risulta un estraneo.
Un estraneo che può essere conoscibile solo dentro il conflitto della diversità, non certo nell’immersione nell’indistinto.
Se nella sua estraneità non lo accogliamo, non lo vediamo, è come se lo uccidessimo. E Jeanne lo uccide. Lo uccide simbolicamente perché non è più il suo eroe, Paul è Paul. E ciò che vede non le piace. Non c’è vendetta, ma solo drammatico ritorno di Tanatos. Dalla creatività erotica della trasgressione che chiede conoscenza, chiede parola, racconto, chiede di sapere, ricompare la morte che vince su tutto.
Di Eros non c’è proprio nulla sulla scena. La censura dovrebbe sentirsi in colpa per la sua cecità. L’unica vera trasgressione è quella operata da Jeanne quando cerca di “parlare”. È la parola che istituisce l’ordine simbolico. Ma Jeanne non sa portare avanti la trasgressione fino in fondo e la vitalità creativa che ad essa si accompagna, perché cade nel tranello delle proprie proiezioni e idealizzazioni, e da lì non sa come uscirne. Il filo di Arianna, nessuno glielo ha dato. Forse aveva ancora troppa poca vita alle spalle, o forse il destino delle relazioni è proprio quello. E forse, nonostante la psicoanalisi, ancora non abbiamo imparato la lezione.

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