Machiavelli ai Tropici. In Congo, la commissione elettorale indipendente ha dato il suo responso definitivo, dichiarando senza sorpresa vincitore l’indipendente Félix Tshisekedi, arrivato apparentemente primo con oltre sette milioni di voti, davanti all’oppositore Martin Fayulu con 6,3 milioni. Terzo il candidato del potere, l’ex ministro di Kabila Emmanuel Shadary con quattro milioni.
Erano settimane che la tensione montava dopo il voto del 30 dicembre. Tutti i dati in possesso degli osservatori indicavano un trionfo dell’opposizione, cioè di Fayulu. Questa volta Kabila e i suoi non potevano “aggiustare” le cifre: troppo grande sarebbe stato lo scandalo. Allora hanno giocato d’astuzia, negoziando in segreto con il candidato più malleabile, il figlio del vecchio Tshisekedi (il rivale storico di Mobutu e poi dei due Kabila), che aveva rotto il fronte dell’opposizione presentandosi da solo.
Un figlio più realista del padre che per tutta la vita restò all’opposizione? Sta di fatto che ha inviato i suoi complimenti a Kabila e si parla di un governo costruito assieme. I congolesi si chiedono “da dove gli vengono quei voti?”: tutti sanno in effetti quanto “pesano” (in termini etnici e geografici) i vari candidati. Dati veri non ce ne sono e non ce ne saranno (anche se si vocifera che Fayulu abbia superato il cinquanta per cento, Tshisekedi sia circa al sedici per cento e Shadari al quindici). In ogni caso la CENCO (Conférence Episcopale Nationale du Congo), i vescovi del Congo, hanno fatto uscire un comunicato in cui affermano che
i risultati annunciati non corrispondono ai dati in possesso dei nostro osservatori.
Una bomba sulla veridicità dello scrutinio. La Chiesa cattolica in Congo è una vera forza, molto rispettata, e alle elezioni aveva inviato ovunque i suoi osservatori.
L’Unione Africana ha tentato di stoppare una proclamazione considerata fasulla, ma non c’è stato nulla da fare. Tshisekedi è presidente ma avrà un’ombra a seguirlo per sempre. Anche se Belgio e Francia si sono affrettati a dichiarare la loro insoddisfazione per risultati “non conformi” e Fayulu ha parlato di golpe elettorale, nessuno pensa più che la cosa sia reversibile. Ora è difficile rimediare: anche i dati delle legislative vanno in questa direzione. Il negoziato tra regime (indebolito ma ancora aggressivo) e vecchia opposizione ha creato un fatto politico che con il tempo (come accade spesso in Africa) si solidificherà e sul quale potrà fare leva il neo-presidente. I partner del Congo lo sanno: d’altra parte l’alternativa sarebbe la ripresa di un nuovo ciclo di insurrezioni.

In primo piano nell’account Twitter di Martin Fayulu, quelli che dovrebbero essere i veri risultati del voto di dicembre
Di violenza il Congo ne ha già vista troppa. Si tratta di una terra che accende le avidità più estreme, tant’è grande e ricco di minerali e materie prime pregiate. La sua storia è un susseguirsi di predazioni. Unico Stato africano colonizzato da una compagnia privata (quella del re Leopoldo del Belgio) ha subito una colonizzazione brutale, follia sanguinaria di brama e schiavismo. Leopoldo intrigò per esserne proprietario unico, scaricando i costi sullo Stato belga.
Per il Congo la decolonizzazione è rappresentata da un dramma che fa ancora parlare: l’assassinio di Lumumba. Prima a fianco di re Baldovino, il neo premier proclama l’indipendenza; poco tempo dopo viene ucciso come un cane. Le responsabilità degli ex colonizzatori non sono mai state chiarite. Fu un tempo di secessioni, interferenze, massacri e caos che all’Italia costò tredici aviatori a Kindu nel ’61, massacrati dalla soldataglia. Il paese cadde nella mani di Mobutu, autocrate e africanista: voleva africanizzare tutto, il nome del paese (Zaire), i vestiti, gli usi e costumi, la moneta, l’economia e la religione. Appoggiava le chiese afro-cristiane libere, come i kimbanguisti: un cristianesimo “nero” per i neri.
Tuttavia era una grande costruzione menzognera: Mobutu finì per trattare con gli ex colonizzatori e le peggiori multinazionali occidentali, svendendo le ricchezze del Congo. La corruzione dilagò al punto che i militari si vendevano le armi. Così quando nel 1996 il vecchio ribelle Désiré Kabila (un maoista riconvertito) si lasciò indurre da Rwanda e Uganda ad attaccare, arrivò a Kinshasa in poco più di due mesi. Per il regime fu un ignominioso fuggi fuggi. Ma pure Kabila senior finì male, assassinato nel 2001 dalla sua guardia del corpo forse perché troppo autonomo dai suoi padrini. Il figlio Joseph Kabila ne ha ripreso l’eredità fino ad oggi.
Ma il Congo non ha più avuto pace: una “grande guerra d’Africa” lo ha consumato generando una sequenza interminabile di lotte complementari, ancora in atto. Di gruppi armati attivi ce ne sono forse oltre settanta. Secondo le Nazioni Unite le vittime in Congo hanno superato gli oltre cinque milioni, la maggior parte civili morti per malattia e fame. Per questo in RDC opera la più grande operazione di pace dell’ONU: la discussa e costosissima (un miliardo di dollari annui) MONUSCO, sul posto dal 2000. Dal 2006 c’è una parvenza di ordine costituzionale, ma niente è più come prima e le elezioni di dicembre lo dimostrano.
Il Congo è lacerato da una guerra per bande (politiche e militari), diviso, depredato da potenze straniere, africane e non. Durante questa campagna ci sono stati meno morti del solito ma la polemica sui risultati può sempre covare e degenerare ex post. Colpisce l’unico dato incontrovertibile: il crollo del partito di governo, anche se Emmanuel Shadari è parso ai più come una marionetta. Tra l’altro è iscritto nella lista europea delle sanzioni per “attentato contro i diritti umani”. Motivi per dichiarare nulle le elezioni ci sarebbero eccome: non è stato possibile votare in alcune regioni (favorevoli a Fayulu), ci sono state critiche sulle “macchine per votare” elettroniche di cui nessuno si fida, anche per motivi di digital divide.

Tweet dell Chiesa cattolica congolese che invita la popolazione ad andare a votare e segnala di aver dislocato osservatori in tutti i seggi per garantire il regolare svolgimento del voto.
La posizione della Conferenza episcopale, forte dei circa 40.000 osservatori, sarà sempre un problema per l’eletto. Nel 2016, davanti all’ultima stasi politica che Kabila utilizzava per restare al potere (siamo oltre i due anni dopo la scadenza naturale del mandato), i vescovi hanno negoziato tra governo e opposizioni l’accordo di San Silvestro del 31 dicembre, che ha stabilito le regole dell’attuale processo elettorale. La Chiesa è percepita dai congolesi come il vero argine alla dittatura e alla corruzione. Molto unita (non è sempre il caso in Africa), non fa passare nessuna violazione dei diritti umani e contesta tutto ciò che non è in regola. Qualche tempo fa ha organizzato manifestazioni in tutto il paese per bloccare il tentativo di Kabila di ripresentarsi forzando la costituzione, e ottenne un bel successo. Ma preti, suore, catechisti e fedeli sono finiti in carcere. Qualcuno è stato anche ucciso.
La rottura tra Chiesa e sfera politica è da tempo completa. Tale libertà piace alla gente e aiuta la società civile congolese a organizzarsi. Dopo il comunicato, anche i seguaci di Tshisekedi (che fino a ieri la lodavano) la criticano per la sua indipendenza e le intimano il silenzio. Tra le tante incertezze che vive il paese, se c’è una cosa certa in Congo è che invece continuerà a parlare.

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