Migranti minori raccontano le loro “Vite sconfinate”

Proponiamo ai nostri lettori l'anteprima di un lavoro ancora in corso basato sulla raccolta di testimonianze dirette per la realizzazione di un libro in cui le loro storie s'alterneranno a poesie e a immagini fotografiche.
MARCO CINQUE
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Questa è una delle storie, in anteprima, di un progetto che sto curando assieme ad Alberto Ramundo. Si tratta di un libro intitolato “Vite Sconfinate”, che raccoglierà le drammatiche testimonianze di migranti minori, assieme a poesie e immagini fotografiche.

Prologo

Sono qui, su questa terra italiana. Ho quattordici anni e sono solo.
In Egitto vivevo con la mia famiglia: mio padre, mia madre, tre fratelli e una sorella. Alla mattina mi alzavo alle quattro per andare a pulire la mucca e dargli da mangiare, poi tornavo a casa per prepararmi ad andare a scuola. Finita la scuola, tornavo a casa, mangiavo, poi aiutavo di nuovo mio padre nelle faccende domestiche e in tante altre cose da fare. Infine, alla sera, quando erano terminati tutti i lavori da sbrigare, dovevo studiare.

Se non lavoravo come diceva mio padre erano botte. Se non studiavo, ancora botte. Se lui era nervoso, giù botte. Se parlavo troppo, sempre botte ed era cosi tutti i santi giorni. Le botte arrivavano con le mani, col bastone, la frusta, così tanto da rompermi un dito, poi un braccio, a bastonate. Tante bastonate. 

Vivere nella violenza ti porta ad essere violento. Ti porta a pensare che si può dialogare solo con le botte, i pugni, i calci e tutto quello che può servire. 

Così per difendere mia sorella da mio padre, mi rivoltavo contro di lui e poi fuggivo da casa per un giorno, due giorni, tre giorni, infine ritornavo. Pure un mio fratello mi infastidiva, così una volta gli ho fatto uno sfregio sul collo con un coltello. Lui si è salvato, ma l’hanno portato in ospedale e io sono di nuovo fuggito. La mia vita era fatta di fughe continue e di botte. 

Arrivato a quattordici anni non ce la facevo più e decisi di partire. Era inverno e quella che sto raccontando è la storia di nove giorni di viaggio su una barca, per arrivare in un posto dove speravo che la mia vita sarebbe cambiata. 

La partenza 

Dopo una settimana di discussioni, sono riuscito a convincere mio padre a lasciarmi andar via da casa per migrare in un altro paese, in un’altra nazione. 

Quella mattina, quando mi sono svegliato, mio padre mi ha accompagnato dalla persona che organizzava il viaggio, ma in quell’ufficio situato in un posto nascosto è entrato solo mio padre. Quando lui è uscito ci siamo avviati verso casa, senza dire niente, nemmeno una parola. Una volta a casa ho detto tutto a mia madre. Lei, fino a quel momento non sapeva nulla, così le ho detto che me ne sarei andato il giorno stesso. La mamma si è messa a piangere, non voleva che andassi, “Non andare, non andare” continuava a ripetermi e per me è stata dura. Lei mi abbracciava tanto, mi teneva stretto a sé e sentivo il suo cuore battere forte. Sentivo la sua ansia, ma continuavo lo stesso a dirle che volevo partire. All’inizio, mentre le parlavo, anch’io piangevo, ma poi ho smesso, continuando a dirle che dovevo andare.

Sono uscito di casa nel primo pomeriggio e ho incontrato mia nonna. Anche lei mi ha abbracciato e non voleva che andassi. Continuava a dirmelo, ma io ero deciso. Così ho lasciato le braccia di mia nonna e ho cominciato a camminare, andandomene con quello che avevo addosso: pantaloncini corti, canottiera e scarpe da tennis. Non avevo una borsa, non avevo da mangiare, non avevo nulla, nemmeno il cellulare. Avevo solo dei soldi: 500 ghinee e cinquanta euro, che mi sarebbero serviti per stare tre giorni ad Alessandria, prima di poter partire con la barca. 

Sono arrivato sull’autostrada, per aspettare la persona che mi sarebbe venuta a prendere. Pensavo a mia madre, ai miei fratelli, ma pensavo anche a mio padre, alle sue botte e alla continua violenza. È questo ultimo pensiero che mi dava la determinazione di portare avanti la mia decisione. Mentre pensavo tutto questo, finalmente è giunto quell’uomo che mi ha fatto salire in macchina e siamo partiti per Alessandria. Erano le 15:30, siamo arrivati a destinazione alle 20:00.

Lì c’erano altre persone dell’organizzazione che mi hanno preso e mi hanno nascosto in una casa assieme ad altri ragazzi, dove sono rimasto per tre giorni. Con i soldi che avevo, riuscivo a mangiare e bere. Davo i soldi alla persona che mi comprava da mangiare, perché io non potevo uscire. Ogni giorno venivano e dicevano che alla sera saremmo partiti, invece questo è successo solo dopo il terzo giorno, quando già pensavo che non l’avremmo più fatto.
Mi hanno fatto scendere, insieme agli altri, dall’ultimo piano e di corsa, perché avevano paura della polizia e per farci correre ci urlavano parolacce e ci picchiavano. Poi, appena fuori dalla casa, siamo saliti su un autobus.
Dentro l’autobus eravamo in 250 ragazzi. Abbiamo girovagato nella città per due ore, ammassati e senza la possibilità di muoverci, visto che eravamo schiacciati l’uno contro l’altro. Era terribile, ma io resistevo.

Il viaggio

Siamo arrivati alla cittadina di Rashid alle due del mattino. Siamo scesi dall’autobus e, insieme ad altre quattordici persone, sono salito su una barca piccola. Su questa ci siamo messi a girare in mare, però c’era la polizia che controllava e chi conduceva la barca aveva paura di essere scoperto. Dopo un po’ ci siamo nascosti vicino a una barca più grande, ma appena possibile siamo tornati a riva. Così ci hanno fatto scendere di nuovo a Rashid, ma a quel punto altre persone, che erano nascoste in una casa, sono uscite e ci siamo acquattati tutti assieme sulla spiaggia, finché non è arrivato un camion. Non so quanti eravamo dentro quel camion, ma ci siamo messi accovacciati con la testa tra le gambe per poterci entrare quanti più possibile. Eravamo uno sopra all’altro e formavamo tre piani di essere umani. Tre piani di pezzi di carne. Tre piani di stracci da trasportare. Dopo hanno coperto il cassone con un telo e non si riusciva più a respirare, perché c’era anche puzza di sterco di mucca. Il camion normalmente trasportava animali e la puzza era terribile, ho pensato che sarei morto, che sarei soffocato sotto quel telo. 

Abbiamo viaggiato fino alle sei del mattino, poi siamo scesi di nuovo e siamo risaliti su un altro autobus. Quindi, dopo un tragitto di dieci minuti, siamo finalmente arrivati alla barca. Mentre scendevo dal bus mi davano schiaffi, perché dovevo sbrigarmi. Tutti dovevamo sbrigarci a salire, perché avevano saputo che li vicino c’era stato un incidente e c’era in giro la polizia. 

In mare

Dovevamo correre in discesa su degli scogli, era pazzesco perché erano alti almeno sette o otto metri e si frapponevano tra noi e il mare. Io ero ancora sopra e guardavo gli altri correre. Ho visto un ragazzo scivolare e sbattere con la testa tra due scogli. Nessuno l’ha aiutato a rialzarsi, penso che sia rimasto li a morire, prima ancora di arrivare alla barca. Ognuno pensava a se stesso. Ognuno pensava solo ad arrivare alla barca. 

Il mare era mosso, con onde molto alte. Le tre barche che ci avrebbero dovuto portare via continuavano a sbattere sugli scogli, per poi allontanarsi. Così noi dovevamo scendere di corsa e saltare al volo sulle barche: o ci si riusciva o si cadeva in mare e se si cadeva nessuno veniva aiutato, quindi si moriva. Quando stavo per cominciare a correre, infatti, ho visto un ragazzo scivolare e finire in mare, per scomparire inghiottito dalle onde.

Quando toccava a me ho cominciato a correre. Anch’io sono scivolato, ma la mia fortuna è stata che in quel momento la barca stava sbattendo sugli scogli e ci sono finito dentro. Poi altri mi sono caduti addosso, salvandosi anche loro, solo perché in quel momento la barca era vicina agli scogli. Ero cosi concentrato a non morire che non sentivo nemmeno la paura, pensavo solo a non morire. Solo a non morire. 

La barca ha girato la prua verso il mare aperto, abbiamo navigato per un ora, poi siamo saliti su un’altra barca. Questa barca era più grande e noi per salire dovevamo arrampicarci su una corda. Quando siamo arrivati nella barca grande ci hanno messo sotto la stiva, dove di solito mettevano il pesce. Finalmente siamo partiti. Lì sotto però non si riusciva proprio a respirare per la puzza del pesce e per la chiusura totale del locale. Era una situazione pazzesca, allucinante, è stata la seconda volta che ho pensato che non c’è l’avrei fatta, ma andavo avanti. Quello che succedeva sembrava così irreale, poi ho capito come funzionava: per salire in coperta si doveva pagare qualsiasi cifra, quello che avevi bisognava darlo tutto a loro, in questo caso ti permettevano di salire, altrimenti si restava lì sotto. 

Eravamo circa 250 ragazzi rinchiusi lì ed io ero entrato per primo, così sono andato in fondo alla stiva. Eravamo ammassati l’uno contro l’altro, non riuscivo a fare un passo verso l’uscita, perciò ho dovuto aspettare che gli altri pagassero per poter uscire. Quando sotto si era sfollato, sono andato per pagare e uscire. Per farlo si metteva la mano con i soldi fuori dalla botola, loro prendevano il denaro e ti facevano salire. A me hanno preso cinquanta ghinee, ma non mi hanno fatto salire. 

Mentre ritornavo verso il fondo della stiva, sono svenuto e cadendo ho battuto per terra, andando a finire sopra un chiodo che mi si è infilzato nella testa. Quando mi sono risvegliato, ho preso gli ultimi soldi che avevo, 350 ghinee e ho rifatto lo stesso gesto e lo stesso tragitto e cosi mi hanno fatto salire, ma forse solo perché ero l’ultimo rimasto. Quando sono salito sentendo l’aria fresca, mi sono addormentato.

In questa barca non avevano né da mangiare né da bere. Eravamo partiti da sei ore e, verso le 15.00, siamo saliti su un’altra barca. Anche in questo caso per trasbordare bisognava saltare. Le barche con il mare mosso sbattevano l’una contro l’altra, poi si allontanavano e noi dovevamo saltare mentre erano vicine. Sono saltati tutti, tranne un ragazzo di colore che aveva paura. L’hanno preso, era davanti a me, gli hanno tagliato la testa e hanno buttato il suo corpo e la testa in mare. Era come guardare un film, non riuscivo a capire se ero io che stavo vivendo questa storia oppure se era un incubo.

Dentro l’ultima barca dove siamo saliti c’erano altre persone che aspettavano da tre giorni il nostro arrivo. Da qui è partito il mio viaggio per la destinazione finale, verso l’Italia. Nella nuova barca ci hanno dato da mangiare un pezzo di pane duro con la muffa verde e con un po’ di formaggio. 

Alla sera del secondo giorno siamo arrivati in Libia, ma non ci siamo fermati. La barca si muoveva tantissimo perché il mare era molto mosso. Lo scafo andava giù e poi di nuovo su. Io ero ancora con i pantaloncini e la canottiera e la sera faceva molto freddo. C’erano dei ragazzi che per tenere calde le mani abbracciavano il tubo da dove usciva il fumo puzzolente del motore, lo stringevano per scaldarsi, ma quando si staccavano la pelle rimaneva attaccata al tubo e sulle loro mani si vedeva la carne sotto la pelle. Mentre giravo sulla barca per cercare acqua, passando vicino a quel maledetto tubo, sono scivolato. Istintivamente mi sono appoggiato e anch’io mi sono bruciato la mano. 

Dopo un po’ che cercavo acqua l’hanno portata loro, ce l’hanno data in un bicchiere che non era riempito nemmeno per metà. L’acqua era sporca di dentifricio e capelli. Era acqua di mare, ma noi l’abbiamo dovuta bere comunque, perché c’era solo quella. Da mangiare non c’era niente. Per quattro giorni sono stato nella parte alta della barca e non ho mai mangiato. Ogni tanto bevevo un po’ di acqua, poi mi hanno di nuovo portato sotto la stiva.

Lì sotto, insieme ad altri ragazzi, avevo trovato un buco da dove si vedeva il mare, così mettevo lì il bicchiere e bevevo l’acqua del mare. Bevevo l’acqua e vomitavo e cosi anche gli altri, ma almeno avevamo la sensazione di avere bevuto, anche se poi la vomitavamo.

Là sotto non avevamo un posto dove fare la pipì, cosi si faceva nell’unico spazio dove potevamo, cioè dove non c’era nessuno seduto, ma li c’era anche il nostro poco cibo: delle melanzane crude. Delle volte capitava che qualcuno facesse la pipi sopra le melanzane che dopo avremmo mangiato. Le ho mangiate, crude, schifose, ma le ho mangiate. C’erano solo quelle se non volevo morire di fame. Potevo mangiare solo le melanzane.

Gli ultimi due giorni sono salito di nuovo in coperta. Il tempo non passava mai e ogni giorno ti dicevano “arriviamo domani, arriviamo tra due ore, arriviamo oggi”, ma non arrivavamo mai. Nella notte, quando stavo sopra la barca, ho visto un elicottero. Poi la mattina successiva è arrivata una nave italiana. Un ragazzo della Siria che parlava inglese ha denunciato alla polizia italiana i trafficanti che comandavano la barca con cui eravamo arrivati. Sono stati presi e portati in un posto diverso da dove eravamo noi, ma sempre nella stessa nave che ora ci ospitava. 

La nave italiana 

Ci hanno dato da mangiare, da bere e ho saputo che giorno era perché avevo perso completamente la cognizione del tempo. Abbiamo mangiato a pranzo, a cena e ci hanno dato una coperta. Poi ci siamo addormentati, fino alla mattina dopo. Quando ci siamo svegliati era molto presto e dopo un po’ siamo arrivati in Italia, in Sicilia. Ci hanno fatto sbarcare e ci hanno dato di nuovo da mangiare. Dei ragazzi maggiorenni, quando siamo arrivati in Sicilia, hanno bevuto shampoo e dentifricio, perché altrimenti, non essendo minorenni, li avrebbero rispediti subito in Egitto. Invece li hanno dovuti portare all’ospedale per aiutarli, ma non li ho più visti. Quindi abbiamo preso l’autobus e siamo andati in un hotel, a Castellana Sicula. 

Sono stato sei mesi in Sicilia, poi mi hanno trasferito in un’altra comunità, sempre in Sicilia. Da lì però sono scappato e sono arrivato a Palermo, dove ho preso un autobus per Roma.

Roma 

Sono arrivato dopo dodici ore di viaggio e sono sceso alla stazione Termini, ma non capivo nulla, non parlavo ancora italiano e non sapevo dove andare. Quando incontravo dei poliziotti dicevo solo le due parole che conoscevo “mangiare, dormire”. Loro scendevano dalla macchina, mi controllavano, poi mi lasciavano andare, senza aiutarmi. 

Tutto il giorno giravo sempre a piedi, cercando un modo per entrare in una comunità e tutte le volte che la polizia mi fermava, poi mi lasciava andare e io restavo sempre solo. 

Qualsiasi cosa trovavo da mangiare la mangiavo. Cercavo nei secchi dell’immondizia e prendevo tutto quello che la gente buttava per strada. Qualsiasi cosa. Camminavo sempre a piedi, fino a notte fonda, poi tornavo alla stazione per riposare. Dormivo sulle rotaie, tra un treno e l’altro, perché avevo paura di dormire da una parte più visibile, dato che in Sicilia mi avevano raccontato che avevano ucciso, bruciandolo, un bambino per strada proprio mentre dormiva. 

Mi sentivo male, ero solo, non avevo nessuno e nessuno mi aiutava. Avevo paura e non sapevo più come fare e cosa fare. Solo il venerdì riuscivo ad andare a mangiare in un posto che si chiamava Civico Zero e che faceva mangiare gratis a chi non aveva niente ma, appunto, solo il venerdì a pranzo. 

Un giorno una signora mi ha trovato sotto il ponte della stazione, stavo piangendo. Mi ha preso con lei, mi parlava, ma non capivo niente. Le dicevo solo le parole che conoscevo: “dormire, mangiare”. Poi siamo andati alla polizia della stazione. Sono stato lì dentro tutto il giorno, quindi mi hanno dato due merendine da mangiare. Quando la signora è andata via, mi hanno portato in un centro di prima accoglienza della polizia, dove sono rimasto per cinque giorni. Da questo posto però non potevo uscire, era come stare in carcere. Facevamo la doccia tutti insieme e mangiavamo tutti insieme. 

Dopo cinque giorni mi hanno trasferito in un altro centro, dove sono stato un mese e mezzo e dopo mi hanno trasferito in un casa famiglia, dove finalmente è cominciata la mia storia in Italia. 

Sentivo male dentro il mio cuore, piangevo spesso, parlavo con la gente ma nessuno mi ascoltava. Mi sentivo come un cane, non ho incontrato mai una persona che mi ha dato un panino o qualcos’altro. Quando andavo in giro ed ero stanco, mi mettevo a dormire in mezzo al marciapiede. La gente però mi scavalcava senza preoccuparsi di me, senza rivolgermi la parola. Avevo solo quattordici anni! Delle volte mangiavo dei frutti che trovavo sulle piante, in giro per Roma, erano amari ma io non avevo altro da mangiare. 

Era inverno, faceva freddo. Tanto freddo… 

Mahmoud, 14 anni (Egitto)

***

I muri coltivati
dentro e fuori di noi
separano l’essere
dall’umano.

Le immagini, di Marco Cinque, sono scattate in un centro per migranti minori nel rispetto della loro non riconoscibilità

Migranti minori raccontano le loro “Vite sconfinate” ultima modifica: 2019-01-26T16:55:03+01:00 da MARCO CINQUE
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