Anonimo del Novecento

Un libro su Giuseppe Marchiori, a cura dello studioso Nicola Gasparetto, racconta la vita del critico d'arte - che in seguito sarebbe stato promotore del manifesto della Nuova secessione artistica italiana - in un’epoca in cui la libertà di parola era diventata un’utopia
ENNIO POUCHARD
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Anonimo del Novecento: così si è firmato, per un certo tempo, Giuseppe Marchiori, “Bepi” per tutti a Lendinara – cittadina battezzata nel Settecento “Atene del polesine” – dove nacque il 18 marzo 1901 e morì il 5 dicembre 1982; ma anche a Venezia, da dove lanciò, il 1° ottobre 1946, il manifesto della Nuova secessione artistica italiana, rinominata poi – su sollecitazione di Guttuso – Fronte Nuovo delle Arti (con Renato Birolli, Giuseppe Santomaso, Ennio Morlotti, Alberto Viani, Armando Pizzinato, Emilio Vedova, Renato Guttuso, Bruno Cassinari, Leoncillo Leonardi). Fronte nuovo che, presentato nel giugno 1947 alla galleria Spiga di Milano e nel ’48 alla Biennale, ebbe vita breve: nel ’50 si sciolse, per l’inconciliabilità, sul piano politico, tra realismo e astrattismo.

Se oggi scrivo di Marchiori è perché in questi giorni ho ricevuto dall’autore – lo studioso Nicola Gasparetto, suo concittadino – il libro “L’Anonimo del Novecento. Giuseppe Marchiori dagli esordi all’affermazione nella critica d’arte” (pubblicato un anno e mezzo fa da Apogeo Editori, Adria, con il sostegno della Fondazione Banca del Monte di Rovigo), da cui apprendo cose delle quali Marchiori non mi aveva mai parlato nel corso dei nostri incontri veneziani. Riguardano, in Italia, l’epoca in cui la libertà di parola era diventata un’utopia, che si protrasse fino alla liberazione del 1945, quando i protagonisti delle storie qui trattate erano ormai quarantacinque-cinquantenni. 

La famiglia Marchiori, originariamente ricchi mercanti di granaglie, a Lendinara possedeva un’antica dimora, Ca’ Dolfin, impreziosita dal parco rifatto dall’eclettico nonno Domenico: luogo, per il nipote, di incontri con artisti e intellettuali accolti con munifica ospitalità; e a Venezia aveva la farmacia di Calle Larga San Marco, con l’appartamento-studio al piano di sopra, in cui Bepi intratteneva personalità e amici. 

Gasparetto ha trovato il filo di questo vissuto nella Biblioteca civica Baccari di Lendinara (della quale è il coordinatore), scartabellando tra documenti e lettere dell’archivio lì depositati in comodato d’uso dalla famiglia Marchiori; e sul materiale così raccolto ha impostato il suo racconto: una vita da romanzo, vissuta in parte in un ambiente legato alle regole di un provincialismo tradizionale, sì, ma in cui la cultura letteraria, musicale e artistica era norma ineludibile. Bepi, quindi, crebbe e maturò studiandola, conoscendola, amandola e praticandola su due versanti: da pittore, esponendo dei paesaggi nel 1925 alla sua prima collettiva a Ca’ Pesaro (seguita da altre quattro, nel ’26, ’28, ’29 e ’30, in cui presentò anche nature morte).

Giuseppe Marchiori, Natura morta, 1928

E da scrittore, pubblicando nel ’26 una raccolta di poesie, convinto che la sua strada per il futuro non si sarebbe potuta situare al di fuori del mondo della scrittura. Nel medesimo anno, però, visitando la XV Biennale di Venezia, scoperse Van Gogh e illic et immediate decise che non di poesia, bensì d’arte figurativa egli si sarebbe interessato. Ne aveva sperimentato il valore nel corso del suo primo soggiorno a Parigi: era una svolta radicale, per la quale si sentì incoraggiare dagli amici pittori Filippo de Pisis e Juti Ravenna. Di ritorno in Italia, si propose a Nello Quilici, direttore del Corriere padano di Ferrara, quale collaboratore per le cronache artistiche di terza pagina (quella privilegiata, allora e per tanti anni a venire). Poi estese le collaborazioni al periodico L’Orto, edito da Aristide Lombardini, e via via ad altri periodici e quotidiani, anche in veste di inviato speciale alla Biennale di Venezia e alla Quadriennale di Roma. Scrisse di artisti a lui familiari (Renato Birolli, Filippo De Pisis, Osvaldo Licini, Ottone Rosai, Pio Semeghini, Luigi Bartolini, Scipione, Gino Rossi) e di altri che, astri luminosi, risplendevano in cieli lontani (Pierre Bonnard, Georges Rouault, André Dunoyer de Segonzac). Un fenomeno nuovo per l’Italia, che lo coinvolse anche in una parentesi da pittore, fu l’astrattismo, imperniato sul libro – considerato il loro vangelo dai seguaci – “Kn” di Carlo Belli. Continuava frattanto a compilare il diario iniziato nel ’35, in cui, tra mille idee, registrava le impressioni tratte dai contatti con artisti in gran parte giovani, cercando di individuare nei loro stili moventi e significati.

Tutto ciò s’interruppe nel ’41, con il richiamo sotto le armi, col grado di tenente e destinazione l’Ufficio stampa del Governatorato di Libia, nell’ambito della trasmittente Radio Tripoli, per la quale s’impegnò con oltre settecento conversazioni radiofoniche, tradotte in parte in francese e in arabo; ma scrisse pure sul mensile illustrato Libia, articoli relativi alle millenarie tracce della civiltà romana, agli affreschi di una necropoli nelle vicinanze di Tripoli e alle opere di artisti italiani commissionate dal Governatorato, e curò la promozione e diffusione del quindicinale Mondo arabo, pubblicato a Roma e diretto da Carlo Belli. Rimpatriato agli inizi del ’43, con l’armistizio dell’8 settembre, nell’atmosfera incerta e tesa che tutti vivevamo scrisse il libro Esule in patria, allora impubblicabile e uscito da Neri Pozza nel ’46, quando però quel tema era inattuale; fu quindi un flop, da lui sofferto come un’offesa. 

Con il rientro a Lendinara, nel ’44, si conclude la parte narrativa del libro di Gasparetto, così suddivisa: La formazione e gli esordi nella critica d’arte, L’avventura delle Edizioni Nord-Est, La collaborazione al Corriere Padano (1931-1942), Gli anni in Libia e il rientro in Italia (1940-1944). Quel che segue si compone di una Sezione documentaria, con un resoconto su corrispondenze con personalità di rilievo e pagine di diario, un’Appendice comprendente una bibliografia degli scritti dal 1919 al 1946, una bibliografia generale e l’esauriente autopresentazione di Marchiori alla personale Anonimo del Novecento, da lui organizzata nel 1975 presso la galleria Due Torri di Bologna; di essa si parla in quanto segue.

Giuseppe Marchiori, la copertina del catalogo di Bologna, 1975

Premesso che in internet non c’è traccia di questa mostra, mi è sembrato logico impostare il mio lavoro sui dati che Nicola Gasparetto ha raccolto: il catalogo illustrato, il cui unico testo è l’autopresentazione succitata, e le foto a colori qui appresso incluse, tutte datate meno questa.

Giuseppe Marchiori, Poesie; l’unico riferimento cronologico sta nei ritagli di frontespizi di un suo volume di poesie pubblicato nel 1927 presso la casa editrice Spighi di Lendinara, ma lo stile del dipinto è posteriore.

Rare sono le tracce dell’Anonimo nel suo tempo – così esordisce Marchiori – che si può fissare tra l’autunno del 1935 e l’estate del 1938.

Ma perché Anonimo?

Passare inosservati è una delle maggiori fortune che possono toccare a un uomo amante del silenzio e della solitudine: un muro lo divide dagli altri, anzi una vera muraglia, sulla quale nemmeno la sua ombra si proietta nel rapido e furtivo passaggio umano.

In quegli anni, inoltre, cosa si chiedeva all’arte?

Di diventare nazista o fascista. […] L’arte d’avanguardia era definita “degenerata”, messa al bando.

Giuseppe Marchiori, L’éponge verte, Escalier de l’infini e Métaphysique en rose, 1935

E soltanto l’Anonimo, nel 1938, osava protestare contro le assurde definizioni, contro quanti esaltavano l’estetica di stato.

Come? Praticando un’arte segreta.
Questa.

Giuseppe Marchiori, Rêve, 1937, e En attendant l’aube, 1938

Sono stati

Anni vissuti intensamente, con l’illusione di aver creato per il futuro le possibilità di un ben diverso destino. Invece fummo tutti travolti dall’orribile guerra. E anche l’Anonimo scomparve nel caos di quelle tragiche vicende. Ma per diventare, molto più tardi, un altro.

Molto più tardi, cioè nel dopoguerra. 

Che fu per lui la lunga, proficua seconda esistenza, vissuta da celebrità anche oltre i nostri confini; ma senza farsi mai tentare da atteggiamenti di über Mensch.

Così lo ritraeva, nel 1944, Renato Birolli.

Renato Birolli, Ritratto di Giuseppe Marchiori, 1944

Fisicamente aveva già la struttura – chiamiamola – importante che io ricordo, ben diversa da quella delle immagini giovanili incluse nel libro di Gasparetto; e a prima vista si presentava, comunque, come un uomo cui voler bene.

Anonimo del Novecento ultima modifica: 2019-01-27T16:12:22+01:00 da ENNIO POUCHARD
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