Né con Maduro né con Guaidó. Ne con il golpe né col regime. Può anche essere una posizione sostenibile dentro la complessa crisi venezuelana, se non fosse che l’immagine che il governo gialloverde sta offrendo in questo frangente, di certo l’ultimo in ordine di tempo ma non l’unico, è che in politica estera siamo al caos organizzato.
Caos che porta un sottosegretario agli esteri a sentenziare contro il pronunciamento dell’Europarlamento, infischiandosene altamente che neanche ventiquattr’ore prima il titolare degli esteri abbia affermato, in audizione al Senato, che l’Italia si riconosce totalmente nella posizione assunta dall’Unione europea. Siamo di fatto al commissariamento di Enzo Moavero Milanesi. Il che potrebbe anche non allarmare più di tanto o far gridare allo scandalo, se non fosse che le continue invasioni di campo rendono ancora più debole la credibilità e la capacità contrattuale dell’Italia nei consessi internazionali e nelle relazioni, non certo idilliache, con gli altri partner europei.

Il ministro degli esteri Enzo Moavero Milanesi
Che nel governo in carica vivessero, spesso in conflitto aperto, due linee di politica estera, ytali l’ha raccontato più volte: la linea “inclusiva” portata avanti dal duo Conte-Moavero e quella “muscolare” che ha il suo massimo, incontestato mentore nel ministro dell’interno, e ormai ministro degli esteri “ombra”, Matteo Salvini. Ora, però, la partita si è allargata e in campo sono scesi i massimi livelli pentastellati. Scompaginando anche le gerarchie formali. E così un sottosegretario Cinque stelle, Manlio Di Stefano, conquista la scena mediatica scavalcando quella che, nella catena di comando della Farnesina, dovrebbe essere un superiore: la vice ministra, anche lei formalmente in quota M5S, Emanuela del Re.
Il banco è saltato, una condivisione di scelte impegnative in politica estera è ormai un ossimoro. Una riprova eclatante in tal senso si è avuta con la vicenda Afghanistan: la ministra della difesa Elisabetta Trenta che annuncia l’avvio della preparazione di un piano di ritiro del nostro contingente impegnato nella missione Nato in Afghanistan, e il suo collega agli esteri che da Gerusalemme afferma prima di non saperne niente, e successivamente rafforza questa esternazione a caldo con una nota della Farnesina che ribadisce l’assoluta mancanza di comunicazione in proposito.

Elisabetta Trenta, ministra della difesa
I senatori M5S della commissione difesa di Palazzo Madama, che puntano il dito contro “le scomposte reazioni delle opposizioni alla storica notizia del disimpegno italiano”, spiegano che “non ci ritiriamo con disonore perché abbiamo perso una guerra, ma che si torna a casa perché finalmente – ci auguriamo – la guerra finisce grazie a un accordo di pace che garantisce gli obiettivi di sicurezza dell’Occidente”. E dichiarano i parlamentari M5S delle commissioni difesa di Camera e Senato:
Le critiche al ministro della difesa Elisabetta Trenta risultano incomprensibili perché sarebbe stato gravemente irresponsabile da parte sua, una volta informata della svolta politico-militare in corso, non attivare subito le procedure formali interne – per le quali, va detto, non c’è bisogno di informare la Farnesina – che sono necessarie per iniziare a preparare il piano di rientro delle nostre truppe dall’Afghanistan: quasi mille soldati, centinaia di mezzi e tonnellate di attrezzature che non si riportano a casa dalla sera alla mattina.
“Non li dovevo (i chiarimenti)”, rilancia Trenta in una intervista al Corriere della Sera, dimenticando un punto sostanziale: che lo strumento militare è sempre in funzione della politica estera che un paese intende seguire. Uno strumento, non un fine. Riflette in proposito, con Adnkronos, l’ex capo di stato maggiore della difesa, il generale Vincenzo Camporini:
La situazione sul terreno è ancora quella di un paese che si sta faticosamente riprendendo da una serie di guerre durate troppo a lungo. Se consideriamo l’Afghanistan del 2001 e quello del 2019 sono stati fatti indubbiamente dei passi da gigante, ma non ancora sufficienti a garantire la sopravvivenza in autonomia di un paese che sia espressione della volontà democratica della sua popolazione. Non c’è nulla di garantito, neanche la democrazia.
E continua il generale:
Quando si può dire che è ora di andarsene? Quando i partecipanti alla coalizione decidono insieme che è ora di andarsene. Se la decisione italiana fosse unilaterale e non concordata, direi che sarebbe difficilmente sostenibile. Non vorrei che Trump avesse dato il pessimo esempio con la decisione di ritirare le truppe Usa dalla Siria.
Sul Venezuela, poi, il caos si trasforma in una tragicommedia. “Maduro ha perso il controllo del paese e la popolazione sta soffrendo. Ci sono settanta giovani assassinati in una settimana dalle forze speciali di polizia e 700 persone in carcere, tanta minorenni addirittura bambini” denuncia Juan Guaidó, il presidente dell’Assemblea nazionale autoproclamatosi in Venezuela capo dell’esecutivo, sulla situazione nel paese, in un’intervista al Tg2.
Evidentemente c’è una scarsa conoscenza di ciò che sta accadendo. Invito il sottosegretario agli esteri a informarsi, un’altra Libia qui non è possibile
afferma Guaidò, rispondendo a una domanda sulle parole di Manlio Di Stefano che, annunciando la contrarietà dell’Italia a riconoscerlo come leader venezuelano, ha invitato ad evitare “lo stesso errore fatto in Libia”.
Invitiamo l’Italia a fare la cosa corretta perché i giorni qui si contano in vite che si perdono.
ha detto Guaidó sottolineando l’importanza del riconoscimento da parte dell’Europarlamento (con l’astensione dei parlamentari M5S e della Lega).
Visto che siamo già stati scottati dalle ingerenze in altri stati non vogliamo arrivare al punto di riconoscere soggetti che non sono stati votati. Per questo non riconosciamo neppure Maduro e per questo l’Italia continua a perseguire la via diplomatica e di mediazione con tutti gli stati per arrivare ad un processo che porti a nuove elezioni ma senza ultimatum e senza riconoscere soggetti che non sono stati eletti.
fa sapere il vicepremier Luigi Di Maio parlando in aula alla Camera della situazione venezuelana e confermando le preoccupazioni del M5S di favorire la guerra civile.
Il cambiamento lo decidono i venezuelani: dobbiamo creare i presupposti per favorire nuove elezioni.
ha aggiunto il vicepremier.
L’Italia non riconosce l’autoproclamato presidente del Venezuela Juan Guaidó, sostiene il sottosegretario agli Esteri pentastellato in una intervista a Tg2000, il telegiornale di Tv2000, spiegando:
Siamo totalmente contrari al fatto che un paese, o un insieme di paesi terzi, possa determinare le politiche interne in un altro paese. Si chiama principio di non ingerenza ed è riconosciuto dalle Nazioni Unite.
E scrive su Facebook il sottosegretario agli esteri:
Rassicuro il mio amico Alessandro Di Battista: l’Italia non sosterrà mai alcuna posizione di ingerenza verso il Venezuela come gli ultimatum di macroniana memoria. L’Italia sostiene il dialogo e quei paesi che lo vogliono, come la stragrande maggioranza dei paesi europei, la Santa Sede, Russia, Cina, Messico e Uruguay. Né io né altri alla Farnesina vogliamo avere sulla coscienza una nuova Libia e faremo di tutto per scongiurare questa ipotesi.
Chi siano questi “altri” Di Stefano non lo chiarisce. Ed è francamente bizzarro, annota un diplomatico di lungo corso, che un sottosegretario faccia queste dichiarazioni in assenza del titolare della Farnesina, Enzo Moavero Milanesi, impegnato a Bucarest nel vertice informale dei ministri degli Esteri Ue.
Firmare l’ultimatum Ue al Venezuela “è una stronzata megagalattica” dichiara Alessandro Di Battista. E continua:
è lo stesso identico schema che si è avuto anni fa con la Libia e con Gheddafi. Identico. Qua non si tratta di difendere Maduro. Si tratta di evitare un’escalation di violenza addirittura peggiore di quella che il Venezuela vive ormai da anni. E mi meraviglio di Salvini che fa il sovranista a parole ma poi avalla, come un Macron o un Saviano qualsiasi, una linea ridicola.
Parole alle quale il ministro dell’interno e vice premier leghista replica a stretto giro:
Di Battista ignora e parla a vanvera: non solo milioni di venezuelani, ma anche migliaia di italiani soffrono da anni la fame e la paura imposti dal regime di sinistra di Maduro. Prima tornano diritti, benessere e libertà in Venezuela, meglio sarà per il popolo.
In un’intervista ad Affari italiani Salvini aveva sostenuto di stare “con il popolo venezuelano” aggiungendo che il regime di Maduro è “fondato sulla violenza, sulla paura e sulla fame. E quindi quanto prima cade, senza altrettanta violenza, meglio è”.

Juan Guaidó
Alla domanda se l’Italia dovrebbe riconoscere Guaidó come presidente legittimo del Venezuela, il leader leghista ha risposto: “Il ministro degli esteri sa cosa deve fare, detto questo si è perso troppo tempo. E Maduro non è persona in grado di guidare neanche un condominio”.
A intervenire nel frattempo è anche il premier Conte, con parole “di mediazione” tra le parti:
In questo momento è di fondamentale importanza scongiurare un’escalation della violenza all’interno del paese e al contempo cercare di evitare che il Venezuela, attraverso l’impositivo intervento di paesi stranieri, possa diventare terreno di confronto e divisioni tra attori globali.
scriveva il capo del governo italiano in un post su Facebook.
Nel frattempo, l’Europa va avanti senza tenere in alcun conto il valzer italiano. E così l’Europarlamento – con 439 sì, 104 no e 88 astensioni – ha dato il via libera a una risoluzione non vincolante, ribadendo il pieno sostegno all’Assemblea nazionale, l’unico organo democratico legittimo del Venezuela, i cui poteri devono essere ripristinati e rispettati, comprese le prerogative e la sicurezza dei suoi membri.
Anche la Francia ha lanciato un ultimatum a Maduro: riconoscerà Juan Guaidó come presidente ad interim del Venezuela se non verranno annunciate elezioni entro domenica. Ad affermarlo è il primo ministro Edouard Philippe in parlamento, aggiungendo che il riconoscimento avverrà “in pieno coordinamento con i nostri partner europei, con la Germania, con la Spagna, con la Gran Bretagna”. L’Italia non è nell’elenco. Certo, Parigi non ci ama. Ma con la “babele” romana, ci autocondanniamo alla marginalità.

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