Sanremo ed élite. Libere associazioni psicopolitiche

Guardando il festival. Non solo musica - e non con la M maiscola - ma anche classi dirigenti e cultura...
ROBERTO DI GIOVAN PAOLO
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So di essere divisivo più di quanto non mi accada con la politica e anche di dare qualche dispiacere ad amici cari. Stasera, come sempre quando inizia Sanremo, sono indifferente se non per il suo dato sociologico.
La musica che amo, lì non c’é.

Sì, per carità, ogni tanto negli anni una briciola, un’apparizione, un desiderio soffocato, un Louis Armstrong a caso oppure Peter Gabriel fuori ordinanza ma insomma, la musica che amo non può esserci, intanto perché non c’è più live – per fine corsa – da anni (ad esempio Led Zeppelin o Deep Purple o Clash o Ramones etc…) oppure perché seguono la loro strada (Patti Smith o Bruce Springsteen). Sia chiaro non ho mai disdegnato anche gusti “strani”, come cantautori (Finardi su tutti è stata una mia passione, sempre, ma lui sa suonare e bene!) o cantanti francesi, e qualcuno forse sul palco dell’Ariston ci è passato di certo, ma per loro non era un’esperienza definitiva, “ultimate”: era un’altra promozione.

Ecco, capisco, riflettendoci, che soprattutto non accetto l’idea che lì passi la musica con la M maiuscola.

Per il resto, era uno spaccato dell’Italia post guerra, sociologico, e poi è stato ristrutturato negli anni per diventare prima vetrina dei discografici e poi una sorta di ultima resistenza ai talent post tv generalista, che forse sono peggio perché costruiti con la logica mentale dell’algoritmo, ovvero capire, prevedere e proporre la previsione. Spazio per “i diversi” non ce n’è più. Tenco non ci sarebbe manco arrivato, nella Sanremo d’oggi.

Non c’è alcuno snobismo da parte mia: Sanremo è in continuità con le radio (né libere né indipendenti) che riempiono spazi di palinsesto con playlist decise a tavolino non dai conduttori ma dalla produzione, in accordo con i discografici, che pensano alla Siae; decisamente in continuità con dj che non sanno più fare playlist (Radio Freccia è morta da anni, lo sappiamo) e nemmeno se ne vergognano; o con conduttori radiofonici costretti dal marketing televisivo a magnificare Sanremo (o il David di Donatello o la finale di Coppa Italia) anche se in vita loro hanno trascorso notti nei motel sudici a inseguire cantanti “maledetti” o “clubbeggiato” fino all’alba (ogni riferimento a Castaldo ed Ema Stockolma non è puramente casuale, ma non credo sia offensivo, io li seguo affettuosamente anche gli altri giorni).

Ovviamente nulla di strano, l’enfasi giornalistica di Mentana anche sul rotolamento della borsa della spesa della massaia ha fatto scuola per tutti e Sky quando presenta anche la partita scapoli-ammogliati di Roccapizzopapera spiega con sobrietà che è la “partita dell’anno”!

Fin qui insomma un’opinione, un divertissement romantico di un rockettaro (e non solo, perché l’amato Boris Vian è certamente più rockettaro – senza farlo, senza saperlo forse, ma non ci giurerei – di legioni degli ospiti giovani di Sanremo, nella sua storia). E però per divertirmi fino in fondo voglio andare oltre.

Quando sento Gino Castaldo (cito ancora lui perché lo stimo e lo seguo da anni) che in diretta alla radio magnifica Nino D’Angelo (e pure lui simpatico lo è, e tanto), mi chiedo se non sia lo stesso meccanismo mentale che, negli anni, ha prima negato e poi entusiasticamente recuperato, che so, gli anni del “riflusso”, il calcio e lo sport in genere vissuto come disimpegno e “oppio dei popoli poveri” e poi rivalutato solo nel segno dell’evento esperienziale delle star (e nel frattempo i leader del pugno nero chiuso al cielo a Città del Messico sono stati sostituiti dai nuovi leader del business e del consumismo con annessa scarpa sneaker personalizzata). Oppure – ancora – passare dalla condanna politica con accenti anche di persecuzione personale e personalizzata della commedia all’italiana classica anni Sessanta-Settanta, fino al recupero dei “cinepanettoni” (con ulteriore discriminazione e nuovo confine tra i Vanzina Rivalutati e Alvaro Vitali No, mentre Bombolo è consegnato al purgatorio di Supercult, una sorta di movimento giovanile con licenza di sperimentazione rieducativa).

Interessante il meccanismo che Sanremo mi ha riportato alla mente: negazione di valore culturale e indicazione a “nemico” (primo errore, anche di esagerazione ideologico-valutativa, a volte). Poi in seguito, nel tentativo di recuperare un minimo di rapporto col popolo (che non ha sempre ragione, che non è necessariamente “bue”, che non va idealizzato a priori…) eccoci alla cancellazione del primo errore con la commissione del secondo: recupero acritico e anche un certo fastidio per chi non condivide.

Ora che ci penso, questo meccanismo vale per la politica, la cultura, l’arte.
E determina la stessa reazione da sempre: prima la diffidenza da parte di chi si sente giudicato “incolto” o culturalmente non all’altezza; poi stupore di fronte all’inattesa rivalutazione e infine rabbia verso chi “vuole sempre condurre il gioco”.

A quel punto il “VAFFA” è dietro l’angolo.

In politica l’abbiamo visto con effetto deflagrante il 4 marzo. Però l’effetto peggiore, sociale e dunque più tragicamente duraturo, è nel tempo: le sue mode, i suoi tic, i suoi comportamenti, e sì, anche il modo sbagliato di vivere lo sport o di ascoltare acriticamente la musica, che aiutano i tempi grami a prolungarsi.

So che sembra incredibile che abbia cominciato a reagire alla prima serata di Sanremo e sia finito a parlare del dibattito sulle élite di Repubblica dove si continua a girare intorno a una questione fondamentale: essere élite in sé e per sé non è buono o cattivo.
Essere élite però non garantisce di essere classe dirigente, cosa che sei non quando ti appiattisci sui gusti per sembrare popolare, ma quando li rispetti e però indichi una strada, non necessariamente alternativa, ma in una direzione ben decisa.

L’incoerenza non passa inosservata. Mai.

Certo che si può cambiare opinione, ma bisogna essere stati cortesi e non ideologici in passato e soprattutto mettersi in gioco, perdere potere e rischiare di essere esposti alla critica e perfino al dileggio. Se non paghi pegno non hai fatto alcuna autocritica e finisci per vivere in un mondo isolato e “isolante”.

Allora, chiudendo la concione, rivendico la fallibilità totale ma anche il diritto e il dovere della coerenza: ho visto e vedo Sanremo come un interessante mini trattato di sociologia, sull’Italia, sulla musica e forse, come abbiamo visto, anche su un metodo. Che si applica anche altrove.

Infatti, per dire, continuo a considerare le qualità canore di Freddy Mercury fuori dal normale, forse con la sola eccezione di George Michael (non a caso il migliore nel Tribute post mortem a Freddy), ma nonostante il bel film Bohemian Rapsody non dimentico che i Queen non furono un riferimento etico o politico mai, né sono paragonabili, per fare solo un esempio, al periodo di ricerca dei Genesis sul folk britannico oppure all’influenza plurigenerazionale dei Pink Floyd.

Né sono paragonabili, infine, a uno dei veri geni musicali (tra tutti i generi, compreso il classico) del Novecento: Frank Zappa. Vissuto troppo poco. Italiano d’origine, ma certo poco sanremese.

Sanremo ed élite. Libere associazioni psicopolitiche ultima modifica: 2019-02-06T11:38:51+01:00 da ROBERTO DI GIOVAN PAOLO
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1 commento

andreina de tomassi 7 Febbraio 2019 a 12:43

Mah!…che dire? Hai riletto il pezzo? Gira e rigira, volta e rivolta, a parte l’elenco delle cose che ti piacciono, ti confesso che non ho capito dove-volevi-arrivare- . Colpa mia sicuro! Non sono più “operatore multimediale”, come si chiamano oggi i giornalisti, da troppo tempo e devo aver perso il ritmo…

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