Decremento della popolazione, anziani (longevi) in aumento, nascite che continuano a non decollare, emigrazioni (soprattutto di italiani) che – dulcis in fundo – confermano la devitalizzazione profonda della demografia italiana. È questo il ritratto che fa l’Istat nel suo ultimo lavoro sugli Indicatori demografici di qualche giorno fa.
Sconsolatamente, possiamo pensare che la demografia sia entrata ormai nella sindrome letteraria di Lord Chandos: la parola (ma anche i numeri) lascia il posto al silenzio che introietta l’amara consapevolezza che dire diviene impossibile. O inutile.
Eppure il pensiero dovrebbe correre a tre date, tra loro vicine ma a noi oggi lontane, che segnarono dei picchi significativi e rassicuranti della storia italiana. Il 1960, il 1963, il 1964. La prima ci dette l’orgoglio di un boom economico che in quell’anno raggiunse l’ineguagliata crescita (molto “cinese” diremmo oggi) dell’8,3 per cento, dopo due anni già di robusta crescita che complessivamente regalò nel periodo 1958-1963 un tasso medio di crescita economica del 6,3 per cento.
Ma il cosiddetto miracolo economico fu anche un miracolo sociale e demografico all’insegna della fiducia nel presente e soprattutto nel futuro. Nel 1963, infatti, i matrimoni raggiunsero il picco (mai più raggiunto) di 420.300, per il 99 per cento con rito religioso. Celibato e nubilato raggiunsero i livelli più bassi e l’epiteto “zitella” assunse un significato chiaramente denigratorio.
L’anno dopo, consequenzialmente, fu l’acme del cosiddetto baby boom, con un numero di nati che superò il milione di unità con una fecondità pari a 2,7 figli per donna: inutile dire che queste cifre che connotarono la demografia del 1964 rimasero un unicum insuperato e oggi irripetibile.
Ma a partire dai garruli anni Ottanta il meccanismo virtuoso tra crescita economica e crescita demografica si logora e si fa addirittura perverso. E nei primi anni Novanta il quadro si fa purtroppo chiaro, quando il debito pubblico supera il Pil mentre le nascite appaiono dimezzate rispetto al 1964, l’annus mirabilis della natalità italiana.
E da quel momento debito e nascite prendono strade testardamente antitetiche mentre il Pil mostra dinamiche del tutto insufficienti se non addirittura negative.
Arriviamo così all’oggi quantificato dall’Istat. In cui la tenaglia invecchiamento/denatalità e indebitamento/recessione economica stringe in modo micidiale sia il modello di buon welfare che abbiamo sia i meccanismi sociali della fiducia e della coesione.
Ovvio aggiungere che le ganasce della tenaglia, fuor di metafora, si alimentano perversamente dimostrando quanto le dinamiche demografiche e quelle macroeconomiche siano correlate, come lo furono felicemente nei citati primi anni Sessanta. Come scrive Alessandro Rosina nel suo Il futuro non invecchia
Crollano le nascite, aumenta la permanenza dei giovani nella famiglia di origine, si accentua l’invecchiamento della popolazione, aumenta il debito pubblico, diminuiscono le prospettive di crescita, crescono le disuguaglianze, si deteriora la fiducia nei confronti della politica e delle istituzioni.
Incompatibile è e sarà il connubio tra crescita degli anziani e diminuzione della popolazione attiva (15-64 anni), popolazione che già sta a sua volta invecchiando, dato che la fascia 15-39 anni è sotto di dieci punti percentuali a quella 40-64 anni.
E comunque oggi l’indice di dipendenza degli anziani è pari a 35,6, il che significa che per ogni ultrasessantacinquenne ci sono meno di tre persone in età lavorativa. Se poi si considerano realmente tutti gli inattivi e li si pone a confronto con coloro che effettivamente lavorano e producono ricchezza (da redistribuire), allora tale indicatore schizza al 60 per cento, con la possibilità di avvicinarsi a 100 entro la metà del secolo, come ipotizza Rosina sul Sole 24 Ore dello scorso mese.
Insomma, per dirla omericamente, mentre gli Enea si riducono si moltiplicano a dismisura gli Anchise da tenere sulle spalle. E del tutto improbabili sono anche le prospettive di avere un sufficiente numero di figli come Ascanio. Oggi il nostro Enea, così vistosamente appesantito, non riuscirebbe probabilmente a fuggire da Troia in fiamme né tantomeno a fondare Roma. Ma, si sa, le poetiche della mitologia non appartengono alla prosaica demografia.

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