Nella società dell’informazione, il congresso dei giornalisti dovrebbe essere un passaggio d’interesse nazionale, dove un intero paese si interroga su quale informazione contare e con quale autonomia e libertà. Non sembra che sia questa esattamente la domanda pressante rivolta alle assise della Federazione nazionale della stampa italiana (Fnsi), riunita a Levico Terme. La sensazione dominante è più quella di un certo disinteresse all’esterno e autoreferenzialità all’interno.
Eppure oggi l’informazione, lo spiega un grande della massmediologia come Manuel Castells, non è più il quarto potere, è l’unico potere che negozia ogni giorno con la politica spazi e linguaggi. In più proprio in queste ore sta maturando un accordo che modifica i meccanismi della comunicazione digitale, il cosiddetto copyright on line, che impone alle piattaforme dei grandi marchi della rete di retribuire i contenuti e di controllare l’uso delle informazioni. Un accordo che se soddisfa le più elementari esigenze di un ceto professionale impoverito, rischia di aggravare il quadro delle subordinazioni sociali e nazionali alla Silicon Valley, proprio mediante quella funzione di controllo che la legge impone. Ma neanche questo sembra attrarre al congresso le attenzioni del paese.
Già l’idea di sbandierare una contrapposizione fra informazione e algoritmi non mi sembra sia stata una grande idea. Lo slogan prescelto è infatti L’informazione non è un algoritmo. Cosa vuol dire? L’informazione è altro dalle intelligenze che la formattano? Gli algoritmi sono meri strumenti? In fin dei conti il mestiere è sempre lo stesso? Sarebbe un grave errore se si volesse allineare il giornalismo alla più volgare delle nostalgie.
Temo che dietro a quel gioco retorico si confermi una triste realtà che dura da tempo, che vede la Fnsi, non a caso in parallelo al congresso della Cgil appena concluso, che pensa di potersi tenere al riparo da ogni contaminazione con i nuovi processi di automatizzazione delle relazioni sociali in atto, che investono frontalmente proprio il giornalismo. Sarebbe davvero disastroso se ciò fosse.
Solo pochi giorni fa, il principale gruppo editoriale dell’informazione come Repubblica/Espresso, ha cambiato il direttore della sua portaerei, sostituendo l’ultimo scrivano con il primo webmaster.
Contemporaneamente, tanto per non avere dubbi sulle prospettive, in un solo giorno, il 23 gennaio, negli Stati Uniti si è registrata una vera mattanza: sono stati licenziati contemporaneamente mille giornalisti dal gruppo più innovativo del paese. Sono eventi sui quali mi sarei aspettato una discussione forte nel cuore della categoria, per intenderne il significato e le implicazioni, per preparare una reazione. Ho visto solo esorcismi. E lo slogan congressuale mostra chiaramente che la direzione che si vuole prendere è opposta alla realtà.
C’è più di un indizio per capire che oggi informazione è algoritmi. Non solo algoritmi. Ma tutti gli algoritmi sono informazione, e dunque sulla loro struttura, la loro semantica, il loro potere bisogna ragionare, altro che giocare con le parole.
Non a caso già negli anni Trenta uno dei grandi matematici moderni come Claude Shannon usava indifferentemente informazione e intelligenza come sinonimi: in inglese intelligence. Oggi comprendiamo bene cosa intendesse anche quando aggiungeva:
L’informazione è lo spostamento di un contenuto da un punto all’altro. Spesso persino con un senso.
Noi giornalisti per troppo tempo abbiamo pensato di essere pagati per il senso.
In realtà eravamo retribuiti per lo spostamento. E oggi che questo spostamento diventa delivery, ossia distribuzione personalizzata automatica, non siamo più pagati, benché ancora abbiamo l’ambizione di promuovere il senso.
Su questo dovrebbe concentrarsi un sindacato di una categoria alle soglie della consunzione previdenziale, e alla vigilia di commistioni con altre figure professionali, come si annuncia con il passaggio all’Inpgi di comunicatori e informatici. Un processo evolutivo che non può rimanere una furbizia contabile per salvare i conti dell’istituto previdenziale, ma deve essere un grande disegno di classificazione dei saperi e delle competenze in redazione.
Cosa significa per un giornalista avere di fianco informatici che architettano sistemi e modelli per parlare con i nostri utenti? Come si possono usare quei saperi per interferire con automatismi che non hanno nulla di neutro e deterministico?
Non mi pare che ci si stia arrovellando su questi temi.
Vedo invece un arroccarsi nelle vecchie certezze, un asserragliarsi in quello che sappiamo fare, che non è poco, come la difesa della trasparenza e della legalità, come molti colleghi testimoniano, ma che se è indispensabile non è più sufficiente.
Il re che tende oggi a ridurci a sudditi non è più solo o prevalentemente il potere politico, finanziario o mafioso, più o meno combinato, quanto la potenza di calcolo che ci sta trasformando a postini del senso che vuole imporre e delle sue gerarchie. Negli anni passati la nostra categoria, guidata dal suo sindacato ha saputo essere protagonista della contemporaneità difendendo democrazia e pluralismo. Niente da dire. Abbiamo marciato, sudato, sofferto. E qualcuno ha dovuto abbandonare ambizioni e disegni autoritari. Ma oggi contro chi ci mobilitiamo? Ancora e sempre contro i nemici di ieri?
Ci sarà un motivo per cui la democrazia nel mondo, a tutte le latitudini, entra in crisi in coincidenza con l’irruzione sulla scena della comunicazione di miliardi di individui disintermediati? Come mai c’è meno pluralismo mentre più gente legge e scrive, si connette e si dibatte?
Forse, come dice qualcuno, la massa che parla è sempre abbruttimento? O piuttosto la massa che parla e ascolta, senza una cultura conflittuale e negoziale, rimane preda di poteri computazionali che rivolgano la disintermediazione in profilazione prescrittiva, come ha dimostrato Cambridge Analytica? Proprio l’altro giorno il garante della privacy, l’unica autorità che non sta con il cappello in mano dinanzi ai giganti digitali, ha dettagliatamente spiegato come Facebook abbia interferito anche nelle elezioni scorso. E le prossime? Non sarebbe il caso di tuffarsi in questo vero conflitto moderno limitando e condizionando lo strapotere degli algoritmi?
Come si fa a convivere con un’informazione tutta delegata ai service provider, che la distribuiscono senza limiti e controlli a propria discrezione, un’informazione senza tempo, dove Facebook ha abolito la cronologia delle notizie? Si può accettare di coesistere con Instant Articles, il meccanismo di Facebook che ha allettato giornali e giornalisti, salvo poi accorgersi della truffa dei dati? Si può tollerare in silenzio un’informazione basata sul dark advertising, dove le grandi piattaforme selezionano e consegnano ai nostri profili analizzati notizie mirate e riservate?
Si possono tollerare poteri che hanno come limite solo l’autoregolamentazione, come l’Agcom ci ha spiegato? O infine si può continuare a disquisire di informazione quando come sindacato non abbiamo avuto nemmeno la forza di chiedere di rendere identificabili e riconoscibili le notizie prodotte e distribuite da bot?
Sono solo alcune delle domande che mi piacerebbe che ci si ponesse nel mio sindacato, per dimostrare, non a me che sono solo un vecchio pensionato, ma soprattutto a quei giovani che guardano alla professione con diffidenza e scetticismo, che gli algoritmi sono informazione, e come tale devono essere condivisi e negoziati. Come dicevo so bene che l’informazione non è solo algoritmi. Ma ormai il sistema della composizione, elaborazione, selezione e distribuzione di una notizia è sempre filtrato da un calcolo, che non è mai neutro. Partirei di qui per entrare nel nuovo millennio del pensiero computazionale.
Lavorando soprattutto sul fatto che gli algoritmi sono etica concentrata, sono valori, emozioni, sentimenti che non possiamo delegare ai fornitori dei nostri giornali, come giustamente ha affermato l’ordine dei giornalisti, che ha cominciato a lavorare su questa materia.
Non a caso è stato proprio l’ordine dei giornalisti l’unica istituzione della categoria a trovare la dignità e le parole per replicare a quell’umiliante grandinata di pagine a pagamento con cui Google ha ricordato a editori e redattori chi è il vero padrone delle notizie. Nessun altro ha trovato opportuno compromettersi con il gigante.
Non è la prima volta che ci troviamo a confrontarci con una rivoluzione: l’abbiamo fatto con l’avvento del telegrafo, e poi con la radio e tv, e ancora con il passaggio dal caldo al freddo nella composizione. Ora non è solo in discussione la confezione delle notizie ma proprio il modo in cui pensiamo e produciamo. È più difficile. Ma non possiamo certo pensare di orientarci con il talismano della memoria se non funziona la bussola dei saperi.

Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!