La notizia del giorno, ieri, era l’annuncio delle elezioni anticipate spagnole, che si terranno il 28 aprile. Ma notizia di rilievo era anche l’entrata nel vivo del processo ai dirigenti politici e civili indipendentisti catalani, accusati di ribellione e malversazione dal Tribunale supremo. Anche perché i due eventi sono strettamente intrecciati. Il governo Sánchez è caduto proprio perché i partiti indipendentisti catalani non hanno approvato il bilancio, la legge di programmazione economica e finanziaria spagnola.
Partiamo dalla conferenza stampa che Pedro Sánchez ha tenuto ieri mattina alla Moncloa. Il presidente del governo spagnolo ha rivendicato i nove mesi di azione del suo esecutivo, ha difeso di nuovo l’impianto di un testo che affronta la crisi economica con misure di carattere sociale – alcune delle quali, già approvate in consiglio dei ministri, resteranno, come la crescita del 21 per cento del salario minimo interprofessionale -, ha fatto sapere che “il governo lavorerà fino all’ultimo momento della legislatura”, cioè fino al 5 marzo, data di dissoluzione delle Cortes. In concreto, dato il poco tempo rimasto e la probabile intenzione di non ricorrere alla decretazione nella fase pre-elettorale, questo lascerà probabilmente spazio forse per un intervento di modifica della riforma del mercato del lavoro fatta dal governo Rajoy, sulla quale premono molto i sindacati e già si era avviato con Podemos il lavoro per arrivare in aula.
Per Sánchez, visto come si erano messe le cose, cadere sulla bocciatura del Bilancio è l’esito migliore. Si presenta al voto avendo conquistato il centro politico e potendo gettare sulle spalle di indipendentisti e destre la perdita non solo delle misure anticrisi ma anche di altre richieste da aziende e parti sociali che erano in cammino.
Ci sono sconfitte parlamentari che sono vittorie sociali. La cittadinanza ha visto,
ha detto, anticipando il tono che dà il la alla campagna elettorale. In un certo modo Sánchez agguanta il centro, contro gli “opposti estremismi”, pur disponendo di un’agenda di politiche di welfare classicamente di sinistra.
I sondaggi concordano su alcune tendenze, anche se la modifica della metodica del Cis (Centro de Investigaciones Sociológicas) ha sconvolto il settore producendo elaborazioni che si discostano molto nei valori assoluti da quelli delle altre società di rilevazione. Secondo il Cis, il Psoe è il primo partito, ma la maggioranza parlamentare va a Ciudadanos e Partido Popular, probabilmente anche senza bisogno della “stampella” dell’estrema destra di Vox.
Con l’indebolimento di Podemos, alle prese con una delle più gravi crisi interne della sua breve storia, il miglior punto di partenza tattico per affrontare il voto per il capo del governo è questo. Se le urne non sorprenderanno, ribaltando i pronostici, Sánchez riuscirà comunque a rafforzare la sua posizione come primo gruppo parlamentare, riducendo anche i dissidi interni, portando anzi dalla sua i baroni ostili impegnati in difficili contese elettorali: dopo l’Andalusia più nessuno è al sicuro e un Sánchez forte nel gradimento serve a tutti. Nel senso del riavvicinamento va letta anche la data del voto, di modo da non coincidere con le europee, contestualmente alle quali si terranno delicati voti amministrativi, come volevano i dirigenti locali del Psoe. Il tono degli altri partiti, lo dànno le dichiarazioni dei loro leader. Pablo Casado ha affermato che dopo il voto
Non ci accorderemo mai con gli indipendentisti, né con Podemos, né con Pedro Sánchez.
Mentre Albert Rivera ha serenamente anticipato che
se sarò presidente del governo, agli indipendentisti non daremo neanche pane e acqua. Rispetto sì, negoziare no.
Sánchez si prepara almeno a costruire un’opposizione forte ma non è detto che i giochi siano fatti, in ogni senso. Ci sono molte incognite, a partire dalle sorti dei popolari, che potrebbero diventare terzo partito ma dei quali è incerta l’entità della discesa, che sarà invece determinante per i futuri equilibri – servirà o no Vox per una maggioranza popolari-Ciudadanos? Poi c’è il processo ai leader di partiti e associazioni indipendentiste che si tiene a Madrid. Evento che sarà centrale nella campagna elettorale come lo è nella storia della giovane democrazia spagnola.
IL PROCESSO
È iniziato martedì nelle sale del Tribunale supremo di Madrid – l’omologo della nostra Corte suprema di cassazione – il processo a dodici tra esponenti del governo, del parlamento e di associazioni civiche della Catalogna, con le accuse di ribellione e malversazione, che prevedono pene fino a venticinque anni di carcere.
Alla sbarra ci sono nove membri dell’allora governo catalano, la presidente del parlamento e due leader delle associazioni civiche indipendentiste.
Il giudizio, che durerà alcuni mesi, si dice almeno tre, vedrà salire sul banco dei testimoni nella Sala Penal del Supermo anche l’ex presidente del governo spagnolo, Mariano Rajoy. Questo non è l’unico giudizio aperto. Altre sei persone saranno giudicate dal Tribunal Superior de Justicia de Cataluña (TSJC), mentre la Audiencia Nacional indaga su quattro responsabili della pubblica sicurezza catalana. Sette accusati sono tuttora latitanti, tra loro l’ex President, Carles Puigdemont. In questo momento non ci sono mandati internazionali in quanto la Spagna, dopo che due tribunali europei non hanno concesso l’estradizione, ha preferito ritirare le domande.
LE ACCUSE
Il Supremo giudica gli accusati per i fatti che culminarono con la supposta dichiarazione d’indipendenza del 27 ottobre 2017, incluse le prime decisioni relative al varo delle cosiddette “leggi di rottura” che consentirono l’organizzazione e la celebrazione del referendum, oltre che per i fatti relativi al suo svolgimento.
Sono fatti avvenuti durante mesi di tensione, manifestazioni di piazza, perquisizioni delle forze di polizia, in una Catalogna nel cui porto era ormeggiata una nave da crociera italiana con a bordo migliaia di agenti di pubblica sicurezza pronti a intervenire. Nel periodo che passò dall’indizione del referendum, alla sua dichiarazione di nullità da parte del Tribunale costituzionale fino alla decisione di vietare materialmente la celebrazione di un evento che non aveva più valore legale, tentando di impedirlo fisicamente, con le immagini rilanciate dalle televisioni mondiali che facevano vedere gente normale e pacifica allontanata con la forza dai collegi elettorali da agenti in assetto antisommossa, e nelle settimane successive, fino alla fine di ottobre.
Molti episodi fanno parte delle accuse, dai passaggi legislativi e deliberativi del Govern e del Parlament, alle manifestazioni di protesta in occasione delle perquisizioni delle forze di polizia (catalana o nazionali), alle concentrazioni a presidiare scuole scelte come sedi elettorali, alla distribuzione delle urne, alla raccolta dei dati.
Il delitto più grave contestato è quello di ribellione. È incluso nei delitti contro la Costituzione previsti dal codice penale spagnolo e punisce coloro che si sollevino con violenza e pubblicamente per, tra le altre cose, dichiarare l’indipendenza di una parte del territorio nazionale. La chiave di questo delitto, la possibilità di formulare l’accusa e emettere l’eventuale condanna, è l’uso della violenza. In Spagna esiste un solo precedente di condanna per ribellione: i trent’anni inflitti a Antonio Tejero e Jaime Milans del Bosch per il tentato colpo di stato del 1981.
IL TRIBUNALE
Il tribunale è composto da sette magistrati, sei uomini e una donna, guidato dal presidente della Sala penale, Manuel Marchena. Con lui Andrés Martínez Arrieta, Luciano Varela, Juan Ramón Verdugo, Andrés Palomo, Antonio del Moral e Ana Ferrer, la prima donna ad accedere alla Sala penale del Supremo.
L’ACCUSA
L’accusa è esercitata da tre entità. Procura, Avvocatura dello Stato e Parte civile.
Quattro procuratori del Supremo esercitano da pubblici ministeri, e sollecitano pene fino a venticinque anni per il delitto di ribellione.
L’Avvocatura di stato contesta invece l’accusa di sedizione. È tipificato nei delitti contro l’ordine pubblico del codice penale. Castiga coloro che, senza essere compromessi nel reato di ribellione, agiscano pubblicamente e creando tumulti per impedire, con la forza o fuori dalle vie legali, l’applicazione delle leggi. Le pene sono da quattro a quindici anni di carcere, per le autorità che incorrano nel reato. Viene inoltre contestata la malversazione, cioè l’uso di fondi pubblici per la celebrazione del referendum illegale. Negli ultimi anni sono stati accusati di sedizione alcuni comuni e consiglieri catalani per aver promosso e approvato mozioni di appoggio alla risoluzione indipendentista ma tutti i procedimenti vennero archiviati per l’assenza di sollevamenti pubblici e tumulti.
La Parte civile è esercitata invece da un partito politico, Vox. Per quanto sembri inopportuno è l’estrema destra, col suo segretario organizzativo, Javier Ortega Smith, e il vicesegretario giuridico, Pedro Fernández, a ricoprire questo ruolo. Le richieste di condanna arrivano a 74 anni di carcere.
GLI ACCUSATI
Dei dodici accusati, nove sono in carcere, i primi dal novembre 2017; tre sono fuori su cauzione.
Il Nome principale è quello di Oriol Junqueras, ex vice presidente del governo e consigliere di Economia e finanze, leader di Esquerra republicana de Catalunya. È accusato di ribellione e malversazione. La Procura chiede venticinque anni di carcere, l’Avvocatura dodici.
Poi ci sono Jordi Turull, ex portavoce e consigliere di presidenza, con richieste di sei e sedici anni; Raül Romeva, ex eurodeputato e poi consigliere Affari esteri del Govern, sedici e undici anni; Joaquim Forn, ex consigliere all’Interno, sedici e undici anni; Dolors Bassa, Affari sociali, sedici e undici anni; Josep Rull, Territorio e sostenibilità, undici e sedici anni; Carme Forcadell, ex presidente del Parlament, e prima presidente della Asemblea Nacional Catalana (Anc, associazione civica indipendentista) dieci e diciassette anni; Jordi Sànchez, presidente dell’Anc, otto e diciassette anni; Jordi Cuixart, presidente di Òmnium cultural (associazione di difesa della lingua catalana e indipendentista), diciassette e otto anni.
Gli accusati liberi su cauzione sono invece Santi Vila, ex consigliere d’Impresa, Meritxel Borràs, ex consigliera di Governo, Carles Mundó, Giustizia, tutti con richieste di sette e sette anni di carcere.
L’AULA
Il processo è iniziato martedì, con le questioni preliminari. Tutte le udienze sono trasmesse in diretta e rilanciate da decine di fonti diverse. Tutte le testate hanno speciali, dossier e dirette disponibili sui diversi media. Hanno esordito le difese, che hanno argomentato giuridicamente l’opposizione alle accuse senza rinunciare all’argomentazione del processo politico. La giornata è trascorsa tranquillamente, con qualche protesta in Catalogna, assembramenti di favorevoli agli accusati e dei militanti di Vox attorno al Tribunale a Madrid, ma nessun incidente.
Mercoledì 13 è toccato alle accuse. I procuratori del Supremo hanno esposto con durezza le accuse, specificando che nel giudizio non c’è l’indipendentismo ma “un piano criminale orchestrato, minuzioso e multi convergente” per arrivare alla secessione della Catalogna. Pur nelle differenze di richieste, anche l’Avvocatura ha seguito la stessa linea, accentuando il versante tecnico delle argomentazioni. L’intervento di Pedro Fernández, per la Parte civile, ha confermato i timori della vigilia. Molta propaganda, richieste senza fondamento giuridico di altre fattispecie criminali per elevare ancora di più gli anni di carcere, una vetrina propagandistica in braccio alla celebrazione della giustizia.
Giovedì sono stati chiamati i primi due accusati, Oriol Junqueras e Joaquim Forn, “ministro dell’Interno” del governo catalano all’epoca, e il procedimento è subito entrato nel vivo.
Junqueras, malgrado abbia deciso di non rispondere ora alle accuse ma solo al suo avvocato, ha saputo rasserenare gli animi. Quest’uomo massiccio, profondamente cattolico, dallo sguardo un po’ strabico, è capace di esprimersi empaticamente. Costella il suo argomentare di domande, coinvolge nell’ascolto. Ha esordito col sorriso. Ha rivendicato il suo essere un “prigioniero politico”, che “votare non è un delitto, impedirlo sì”, ha detto che “ama la Spagna” e soprattutto ha negato, “mai, mai, mai”, di aver usato, pianificato, stimolato la violenza ma anzi di essersi sempre speso in senso contrario. Si è scusato per l’enfasi, “ma è un anno e mezzo che non posso parlare”.
Con Joaquim Forn è invece iniziato il duello con le accuse. L’impressione è che l’ex consigliere catalano sia riuscito a rispondere a molte questioni producendo gli atti emessi durante i fatti, ha ricostruito sue frasi del dispositivo d’accusa che erano state estrapolate da atti o interventi più ampi, escludendo quelle che facevano esplicito riferimento all’attuazione della legalità costituzionale. Se l’accusa ha avuto gioco nel dimostrare l’assunto che non applicare una legge dello stato sia un reato non altrettanto ha fatto nel delineare l’esistenza di quel dispositivo che risponde alle necessità di sostanziare le accuse formulate. E non sarà facile dimostrare, nel mare dei dispositivi politici e burocratici, la volontà di non applicare leggi, sentenze e dispositivi di polizia come atto di ribellione dell’ordine costituito che presuppone l’uso della forza.
Ma sono le primissime battute. E martedì 19 si riapriranno le porte di un processo che accompagnerà la Spagna al voto, e alla formazione del prossimo governo. Se un auspicio possiamo farci, è che la riformulazione di quanto accaduto in un’aula di giustizia renda evidente come aver voluto indirizzare nel percorso giudiziario una questione del tutto politica, della quale la politica si doveva fare carico nell’interesse comune, sia stato imboccare una strada drammaticamente sbagliata. Che ha portato la giovane democrazia nella sua più grande crisi istituzionale e politica.

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