Il tema è di quelli destinati a scatenare polemiche, a dividere, a militarizzare le coscienze e la comunicazione. Qual è la linea di confine, la border line, tra antisemitismo e critica a Israele? La destra che governa lo Stato ebraico su questo non ha dubbi: l’antisemitismo, quello più pericoloso perché più subdolo, oggi si annida dietro l’antisionismo, il che significa, per questa linea di pensiero, che criticare Israele per il pugno di ferro utilizzato nel reprimere la rivolta palestinese o nel portare avanti la colonizzazione in Cisgiordania, equivale, in buona sostanza, a mettere sotto accusa Israele non per quel che un governo fa, ma per ciò che Israele è, il focolare nazionale ebraico fatto Stato.
Un dibattito che si è recentemente infiammato negli Stati Uniti e del quale è stata protagonista Ilhan Omar, una delle prime donne musulmane elette al Congresso. A scatenare la bufera sono stati alcuni tweet che la rappresentante democratica aveva scritto sostenendo che una delle più potenti organizzazioni ebraiche statunitensi, l’Aipac (America Israel Public Affairs Committee), grazie alla sua forza economica aveva orientato la politica estera americana a favore d’Israele. Apriti cielo!
Gli ebrei che con i loro denari orientano la politica mediorientale dell’iperpotenza mondiale, soprattutto oggi quando alla Casa Bianca è insediato un presidente, Donald Trump, che ha compiuto un atto che nessuno dei suoi predecessori, repubblicani o democratici che fossero, aveva mai portato a compimento: trasferire l’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme, riconoscendo quest’ultima, nonostante due risoluzioni Onu, capitale eterna e indivisibile dello Stato d’Israele.
Il riferimento al denaro basta e avanza per appioppare alla giovane deputata del Minnesota il marchio spregevole di antisemita. Nel vivo delle polemiche, i leader democratici della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti hanno rilasciato una dichiarazione congiunta che condanna Ilhan Omar per i commenti considerati antisemiti pubblicati sui suoi canali social.
Siamo e saremo sempre forti sostenitori di Israele al Congresso perché comprendiamo che il nostro sostegno si basa su valori condivisi e interessi strategici. Le critiche legittime alle politiche di Israele sono protette dai valori della libertà di parola e del dibattito democratico che gli Stati Uniti e Israele condividono,
si legge nella dichiarazione sostenuta dalla presidente della Camera, Nancy Pelosi.
Ma l’uso da parte del membro del Congresso Omar dei tropi antisemiti e delle accuse pregiudizievoli sui sostenitori di Israele è profondamente offensivo. Condanniamo queste osservazioni e chiediamo al membro del Congresso Omar di scusarsi immediatamente per questi commenti offensivi.
Interessante, in quanto a manipolazione del pensiero e delle intenzioni, è come i grandi media hanno rappresentato la risposta della parlamentare reproba. In un tweet, Omar ha sì affermato che
l’antisemitismo è reale e sono grata agli alleati e colleghi ebrei che mi stanno istruendo su questa dolorosa storia dei tropi antisemiti
ma ha poi aggiunto che
al tempo stesso, riaffermo il problematico ruolo dei lobbisti nelle nostre politiche, se anche fossero l’Aipac, l’Nra (la lobby delle armi, ndr) o l’industria petrolifera.
Una cosa è certa: le considerazioni di Ilhan Omar hanno creato panico nell’Aipac e scatenato la furia di The Donald. In una furente dichiarazione, l’inquilino della Casa Bianca ha affermato che Omar “dovrebbe vergognarsi di se stessa” e che la sua apologia era “penosa”. Quanto all’Aipac, il quotidiano progressista di Tel Aviv Haaretz ha rivelato nei giorni scorsi che il comitato sta utilizzando la vicenda per una raccolta straordinaria fondi, sostenendo che è questo il modo migliore, più efficace come risposta ai tweet della “musulmana antisemita” Ilhan Omar.
La scorsa settimana il corrispondente di Haaretz Amir Tibon in un articolo ha evidenziato la “sfida” che diplomatici e gruppi filo israeliani come l’Aipac devono affrontare nell’attuale contesto politico con
la crescente ala progressista all’interno del Partito democratico che è molto critica nei confronti di Israele e che ora include due membri della Camera dei Rappresentanti che sostengono apertamente il Bds [la campagna internazionale “Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni” verso Israele, ndr].
I due membri in questione sono Ilhan Omar e Rashida Tlaib.
Il rischio politico è che alcune delle argomentazioni con cui la deputata democratica ha motivato la sua denuncia finiscano per ricompattare una comunità ebraica americana fino a oggi profondamente divisa dalla politica iper filoisraeliana condotta dall’amministrazione Trump.
Tra gli ebrei americani e gli israeliani c’è un divario, specialmente in relazione al presidente americano Donald Trump. È quanto emerso da un sondaggio dell’American Jewish Committee (Ajc). Il 77 per cento degli israeliani approva l’operato di Trump contro solo il 34 per cento degli ebrei americani. A disapprovare la politica del 45esimo presidente Usa è il 57 per cento degli ebrei americani contro solamente il dieci per cento degli israeliani. Stando al sondaggio, il 59 per cento degli americani è favorevole alla creazione di uno stato palestinese contro solo il 44 per cento degli israeliani.
L’errore di fondo commesso da Omar è quello di non aver saputo, più che voluto, distinguere la “lobby israeliana” con quella “ebraica”. Un errore, non solo concettuale ma politico, perché la prima è molto più pervasiva rispetto alle scelte di politica estera dell’amministrazione Trump di quanto sia la “lobby ebraica”. Un esempio emblematico è quello del trasferimento dell’ambasciata. Quella che più ha spinto l’amministrazione Trump al trasferimento dell’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme, non è stata la comunità ebraica americana ma gli evangelici, parte fondamentale del “sionismo cristiano”.
Evangelico, ad esempio, è il vice presidente degli Stati Uniti, quel Mike Pence che così ebbe a dire nel suo discorso alla Knesset del 22 gennaio 2018:
Oggi mentre mi trovo nella terra promessa di Abramo, credo che quanti amano la libertà e auspicano un futuro migliore debbano volgersi verso Israele e provare meraviglia per quanto vedono.
È stata la fede “a ricostruire le rovine di Gerusalemme e a fortificarle nuovamente”, proclamò il vice presidente pronunciando la “shehechiyanu”, la benedizione ebraica.
Sono qui per portare un forte messaggio: la vostra causa è la nostra causa, i nostri valori sono i vostri valori. Siamo schierati con Israele perché crediamo nel bene e nel male, nella libertà sopra la tirannia
proseguì il discorso-sermone facendo un parallelo fra la storia degli ebrei e quella degli Stati Uniti. “È la storia di un esodo, un viaggio dalla persecuzione alla libertà”, aveva affermato in trance religiosa, ricordando come i padri pellegrini che per primi arrivarono in America si rivolgessero “alla saggezza della Bibbia ebraica”.
Non si sta parlando di una minoranza, per quanto agguerrita, di fanatici fondamentalisti. Si tratta, al contrario, di una comunità che oggi conta cento milioni di adepti, l’81 per cento dei quali ha votato l’attuale quarantacinquesimo presidente alle scorse elezioni, nel novembre 2016.
Sempre di quei cento milioni, un terzo è formato da ferventi supporter dello Stato israeliano, tanto da costituire un movimento autonomo, il cosiddetto “sionismo cristiano”. Le cifre dell’endorsement evangelico alla causa sionista diventano ancora più rilevanti se accostate a quelle relative alla comunità ebraica statunitense: solo il sedici per cento, secondo una ricerca del Pew Research Center, sosteneva nel 2017 il trasferimento immediato dell’ambasciata statunitense a Gerusalemme (il 36 per cento era a favore, ma solo quando i negoziati di pace tra Israele e Palestina fossero progrediti); tra gli evangelici, invece, ben il 53 per cento era d’accordo con la decisione di Trump.
I “sionisti cristiani” sono parte attiva, influente, e non solo nell’era Trump, nella determinazione delle scelte degli Usa in Medio Oriente e su Israele. E così non appare una forzatura, né desta meraviglia che, come sostiene Daniel Pipes, “oltre alle Forze di difesa israeliane, i sionisti cristiani possono essere ritenuti l’estrema risorsa strategica dello Stato ebraico”. O, come ebbe a scrivere nel 2006 Michael Freund, ex direttore dell’Ufficio comunicazioni di Netanyahu:
Ringraziamo Dio per i sionisti cristiani! Piaccia o no, è assai probabile che il futuro delle relazioni tra Israele e gli Stati Uniti siano assai meno nelle mani degli ebrei americani che in quelle dei cristiani d’America.
Nel 1996 il Terzo congresso internazionale dei sionisti cristiani ha proclamato che “la Terra che Egli promise al Suo Popolo non dev’essere frazionata… Sarebbe un ulteriore errore da parte delle nazioni riconoscere uno Stato palestinese in qualunque parte di Eretz Israel”.
Rimarcano John J. Mearsheimer – docente di scienza della politica all’Università di Chicago – e Stephen M.Walt – che insegna relazioni internazionali alla John F. Kennedy School of Government presso l’Università di Harvard – nel loro libro “La Israel lobby e la politica estera americana” (edito in Italia da Mondadori):
Fornendo supporto finanziario al movimento dei coloni, e scagliandosi pubblicamente contro ogni concessione territoriale, i sionisti cristiani hanno consolidato le derive intransigenti di Israele e Stati Uniti, e hanno reso più difficile ai leader americani esercitare pressioni sullo Stato ebraico. Senza il sostegno del sionismo cristiano, il numero dei coloni israeliani sarebbe più modesto e i governi di Israele e Stati Uniti sarebbero meno condizionati dalla loro presenza nei Territori occupati e dalla loro attività politica. Oltre a questo c’è il fatto che il turismo cristiano (una parte cospicua del quale è di matrice evangelica) è diventato una ragguardevole fonte di introiti per Israele, generando nell’area un volume di entrate che si aggirerebbe intorno al miliardo di dollari l’anno.
Omar dovrebbe concentrarsi su di essa.

Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!