Il selfie in prosa di Matteo Renzi

Più che un libro di memorialistica politica, "Un'altra strada" è un lungo autoscatto. Di quel linguaggio iconografico il testo ne propone l’istantaneità e la capacità di simboleggiare un sentimento, ma anche una certa leggera frivolezza dei messaggi e soprattutto dei ragionamenti. Un’insostenibile leggerezza dell’analisi.
MICHELE MEZZA
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Forse qualcuno ricorderà quel geniale film di un giovanissimo Steven Spielberg, “Duel”, tutto incentrato su un tragico gioco di ripicche e vendette fra un automobilista e un grosso camion, finito con la morte del primo, secondo la regola che quando un uomo con la pistola incontra uno con il fucile il secondo vince. Inevitabilmente. 

Il pathos del film era dato da una scena ricorrente, in cui l’automobilista, appena pensava di essersi divincolato dall’inseguimento del camion, alzando gli occhi sullo specchietto retrovisore immancabilmente vi ritrovava la minacciosa sagoma dell’autocarro che lo braccava.

“Un’altra strada”, il nuovo libro di Matteo Renzi, sembra riproporre quella trama, con l’autore che scrive la sua storia degli ultimi anni sempre con gli occhi incollati allo specchietto retrovisore tutto occupato dall’insopportabile, per lui, maggioranza gialloverde che lo ha spodestato.

Più che un libro di memorialistica politica, come sarebbe legittimo attendersi da un ex-segretario del più grande partito della sinistra italiana, oltre che ex-capo del governo, si tratta di un selfie in prosa. Di quel linguaggio iconografico il testo ne propone l’istantaneità e la capacità di simboleggiare un sentimento, ma anche una certa leggera frivolezza dei messaggi e soprattutto dei ragionamenti. Un’insostenibile leggerezza dell’analisi.

Nell’altalenante rincorsa di aneddoti e ricordi – tutta incentrata su un unico tautologico tema: se avessi vinto il 4 dicembre tutto ciò non sarebbe stato possibile – la cosa che più colpisce è l’assoluta assenza di ogni traccia del suo partito. La sua sfolgorante azione di rottamazione del vecchio quadro ex Pci, e l’innesto sulla scena politica di una nuova generazione di figure politiche, tutte accomunate dall’estraneità a quella lontana storia ideologica, non affiora minimamente. Neanche come fatica, o come criticità, o ancora più in generale, come attrito nella sua azione politica.

Il partito, la sua macchina, la sua dimensione di comunità, persino il suo staff e i collaboratori più fedeli sono appiattiti e annullati. È un unico e solitario duello fra lui e il leviatano populista. E qui potremmo anche essere a un tornante culturale, in cui la retorica partitista è cancellata da una diversa narrazione generazionale. Ma la sensazione del selfismo, ossia di un ragionamento tutto basato su istantanei aneddoti e momentanee circostanze, si ripresenta quando si passa all’orrida figura del grande camion che tallona: il populismo. 

Nel libro Renzi lo prende di petto, meglio aggredisce frontalmente i suoi personaggi e dirigenti, mentre si tiene alla larga da un’analisi sul fenomeno. Il populismo diventa nelle sue descrizioni una degenerazione di una moda, una fenomeno di costume, che esiste perché esiste il male. Il mondo non è mai stato cosi felice, scrive, ma non prova nemmeno a darsi una risposta alla domanda di perché scarrocci tutto a destra.

L’Europa è l’unica soluzione ai nostri problemi, insiste Renzi, ma perché sta consegnandosi ai sovranisti? L’Italia stava vivendo un nuovo rinascimento, rivendica con orgoglio l’ex presidente del consiglio, ma perché poi all’improvviso ha imboccato bruscamente l’avventurosa strada gialloverde? L’unico tentativo di dare una ragione a questi paradossi è la paura.

In più passaggi, da quando s’addentra in un improbabile analisi del trumpismo, a quando spiega la frana del 4 marzo, Renzi s’aggrappa a questo sortilegio: la destra ha aizzato la paura. Ma come, perché, per chi, e con quali motivazioni? Come è stata costruita, alimentata, diffusa e generalizzata la paura? Come possiamo ritrovarla indistintamente dall’Illinois a Fucecchio? Com’è possibile che l’Occidente, il modo del ceto medio, delle aree sociali identificate con il consumo più che con la produzione, venga oggi travolto dallo spostamento di popolazioni dal sud al nord del mondo, in un momento in cui il nord è in crisi anagrafica e il sud si trova compresso nelle sue economie dal protezionismo dei ricchi?

Sono temi che non s’intravvedono nella requisitoria rancorosa del leader defenestrato. Persino sul tema delle fake news, di cui oggettivamente è stato vittima, Renzi non riesce a imbastire un ragionamento che vada al di là della telefonata di protesta con Putin per le manipolazioni dei media russi. Ma come, nel mondo sono in corso istruttorie che hanno inchiodato grandi apparati digitali, come Facebook, grandi sistemi professionali come Cambridge Analytica, grandi reparti tecnologici nazionali come gli hacker di San Pietroburgo, grandi lobby globali, come il Movement di Bannon, che sulla base di una potenza di calcolo riescono a campionare l’immaginario di milioni di persone, parlandogli esattamente con il linguaggio e i temi che loro si aspettano, e una delle vittime che fa? S’accanisce sullo statista di Pomigliano d’Arco. Nemmeno l’istinto della sopravvivenza lo porta a sporgersi oltre il selfie.

Su tutta questa strategia basata su processi sociali eccitati e moltiplicati dalle nuove modalità di produrre senso, il libro non sembra stimolato ad approfondire. Si limita a sciogliere il suo racconto in una serie di episodi e aneddoti frammentati – dalla pagella cucita nella tasca del bambino affogato davanti alle nostre coste, fino agli orrori di Macerata, o alla vittoria dell’Appendino a Torino grazie a un fotomontaggio. Niente di più. L’unico velo autocritico Renzi se lo riserva ovviamente per l’autocritica degli altri: ho sbagliato a comunicare (a far comunicare, intende) male le cose buone che ho fatto. Siamo al confine del più patetico senso d’impotenza. Rifugiarsi nella comunicazione, intendendola forma separata dalla politica vera e propria è un errore da matita blu al primo anno di scienze politiche.

È questa la parte del libro che risulta più irritante per i congeniti avversari dell’autore e, credo, più insoddisfacente, per i suoi tenaci sostenitori. Un dirigente politico, con la responsabilità di aver prodotto un cambio radicale di cultura politica in un grande partito di massa, che ha diretto il governo, identificandosi con il suo paese, non può lasciare sospesi certi quesiti, deve faticare, sudare, esporsi per dare una bussola a chi lo legge. Non può, dopo un crescendo di “avevamo visto giusto… avevamo deciso bene… avevamo trovato la soluzione…” concludere che tutto si è squagliato per il fuoco amico, per la litigiosità del partito, perché i suoi avversari interni non si rassegnavano a farlo decidere. È un po’ pochino. Così come appare francamente datata e scolastica la sua adesione all’innovazione tecnologica. Nel 2019 si pretende qualcosa di più che una generica elegia alla tecnologia.

L’intelligenza artificiale ci cambia la vita, scrive Renzi con la solita sequenza di dati da effetti speciali, che oggi non stupiscono più nemmeno uno studente delle elementari, che ormai dal secondo anno studia coding. Il buco nero che un leader politico, come ha fatto la Merkel, o lo stesso Macron, o persino Trump, deve affrontare è quello d’individuare il punto critico di questo processo tecnologico, per far intendere come e in che modo la politica rimanga al primo posto e come la proprietà degli algoritmi non deve determinare, come pure sta accadendo, la formazione dell’opinione pubblica e le decisioni di ognuno di noi. Anche qui l’ex rottamatore se la cava con qualche battutaccia su Di Maio o Salvini, o qualche inutile ormai affermazione di fiducia sulle magnifiche sorti e progressive del digitale, contraddette qualche pagina dopo, con le solite passatiste battute sulla iperconnessione e la dipendenza di ognuno di noi dai telefonini.

Arrivati alla duecentesima pagina, anche il più indulgente dei simpatizzanti per il giovane leader in camicia bianca comincerà a dare segni d’impazienza. Ora, capito che i populisti sono i peggiori esseri sulla terra, capito che il migliore governo nazionale è stato travolto da fake news e fotomontaggi, intuita l’ingratitudine di cittadini e politici per chi li stava valorizzando, come se ne esce? Anche questa domanda riceve come risposta una sequela di bordate contro gli usurpatori. Sia quelli che lo hanno sostituito al governo, a cui s’annunciano le peggiori sciagure, sia a quelli che l’hanno estromesso nel Pd, a cui si ricorda che non hanno mai contato nulla senza di lui.

Anche questo sussulto si basa su dati che sono cronachisticamente ricordati con puntigliosità, ma risultano incompleti, perché manca sempre l’altra faccia della luna: i populisti fanno clientelismo? Ma prima tutto bene e trasparente? I populisti hanno salvato gli amici delle banche? Ma prima niente da segnalare in Toscana? I populisti umiliano la scuola? Ma la famosa legge sulla buona scuola perché ha prodotto una sollevazione di insegnanti e studenti? Insomma non è proprio Tacito il modello di storico a cui Renzi s’ispira. E tanto meno si compromette, in conclusione con una traccia o un indizio che facciano intuire quale bussola adottare. Se ne uscirà perché siamo i migliori. Avrete notizie.

Lo specchietto retrovisore continua a scioccarlo: nonostante le gaffe e gli strafalcioni, il camion dei populisti sta sorpassandolo in curva. E non si vede proprio dove sia Un’altra strada.

Il selfie in prosa di Matteo Renzi ultima modifica: 2019-02-16T16:35:48+01:00 da MICHELE MEZZA
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