Tav, paradigma delle grandi opere

Se le scelte politiche sono condizionate al parere di un tecnico o esperto non possono che essere irrazionali, cioè estranee al destino dell’uomo. 
FRANCO AVICOLLI
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Alla fine gli esperti hanno concluso che la decisione se fare o meno il Treno ad alta velocità Torino-Lione (Tav) spetta alla politica. Visto che le posizioni sono rimaste invariate, non mi sembra pertanto che il loro contributo abbia chiarito più di tanto la vicenda. Che forse potrebbe essere più comprensibile rileggendo la storia italiana delle grandi opere che è lunga ed è fatta, fra gli altri, di capitoli come l’aeroporto di Fiumicino, di Gioia Tauro o del più recente Mose, che lasciano pochi dubbi sulla loro reale utilità e generano molta diffidenza. 

Alcuni sostengono che le grandi opere siano fonte di ricchezza, motori dell’economia e generatrici di posti di lavoro vitali soprattutto in momenti di crisi. Credo che si possa anche essere d’accordo con un tale punto di vista. E tuttavia non credo che un mondo che si richiami alla civiltà condannando il dolore, la sofferenza e le stragi, possa non pensare agli avvenimenti che accompagnavano la scoperta dell’oro al tempo degl’indiani d’America.

Si tratta di una vicenda storica che per quanto riguarda la ricchezza, l’occupazione e il movimento di uomini e capitali è senza confronti, visti i grandi appetiti e frenesie che scatenava con corse di carri e cavalli, con centri abitati nati dal nulla che ferrovie e ponti si curavano di collegare con il lavoro di migliaia di operai.

Ma la conclusione normale e inevitabile di quelle vicende era sempre la stessa: c’era chi aveva trovato l’oro, fatto fortuna e accumulato modeste o grandi ricchezze e chi si arrangiava; dai fatti erano nate comunità con un qualche ordine politico e amministrativo nuovo e infine c’erano i nativi indiani che avevano abitato quelle terre, che ogni volta uscivano dagli accadimenti con le ossa rotte, tanto per usare un eufemismo.

Ciò che aggiunge preoccupazione cosciente alla diffidenza maturata è il modo con cui i protagonisti a vario titolo hanno trasformato una questione seria in un teatrino mediatico: cioè nella solita partita di calcio in cui si fa il tifo per una squadra o per l’altra, ovviamente in un incontro in cui già si sa quali sono le due squadre.   

Esattamente come accade con gli incontri sportivi, ci sono quelli che non scendono in campo, gli invisibili che dietro le quinte preparano le condizioni perché l’evento si produca, che partecipano all’incontro per ragioni e interessi diversi: come gli agenti dei calciatori, le proprietà, gli scommettitori, le agenzie pubblicitarie per citarne alcuni, e senza dimenticare i mass media che sono un po’ gli arbitri fuori campo, con le loro passioni variamente legate al fatto sportivo.

È un gruppo abbastanza eterogeneo di figure che meriterebbe un’analisi che però sarebbe troppo lunga per entrare nell’economia di un articolo che, per ottenere benevolenza, deve affidarsi alla brevità. Mi limito perciò a qualche riflessione sulla politica e sulla scienza che in modo più diretto hanno animato il teatrino. 

A cominciare da Matteo Salvini, che si porta in giro con una mole che a molti deve apparire troppo ingombrante, ad altri esuberante e coinvolgente per quella sua capacità di essere molte persone, tutte capaci di dire la cosa giusta al momento giusto.

Lo immagino mentre esce dalla scena fregandosi le mani e poi dando pacche sulle spalle a intimi e amici invitandoli a non preoccuparsi perché, Tav o non Tav, avrà detto ricordando Mao: “se grande è la confusione sotto il cielo, vuol dire che la situazione è favorevole”. E avrà poi aggiunto: “Porteremo la questione in Parlamento dove la maggioranza vuole il Tav che quindi faremo”, chiosando con gli occhi verso il cielo: “i Cinque stelle se ne faranno una ragione!”.

Relativamente ai pentastellati, la sensazione è che abbiano perduto la bussola e si stiano avvitando su se stessi, coinvolti in una battaglia costi/benefici che nelle premesse avversavano, avendo sposato le ragioni ambientaliste sollevate da una popolazione locale – sono gli indiani piemontesi! – che aveva creato un forte movimento contrario all’opera faraonica. Un’opera ritenuta potenzialmente capace di ferire in modo mortale un territorio tutt’altro che abbandonato, con un’agricoltura fiorente e un’economia bisognosa di sostegni normali – come accade in Sardegna con gli allevatori di pecore e un po’ dappertutto – ma non di interventi stravolgenti.

Con tale atteggiamento che sembra rifugiarsi nella scappatoia dei costi/benefici, i Cinque stelle mostrano di muoversi con un pragmatismo che mira alla giustizia e all’onestà senza mostrare in quale modello di società ciò è possibile: un buco che rischia di inghiottirli, giacché la coscienza generale è che in questa società la cosa non è possibile. Forse capiranno che le battaglie non si possono fare a metà e che il loro successo è dovuto alla speranza suscitata per un modalità inusuale di affrontare problemi antichi, fra cui l’importanza del problema in sé e non tanto gli effetti elettorali e propagandistici.  

L’altro protagonista in nome dei saperi è Marco Ponti, il tecnico chiamato dal ministro, che ha sostenuto con un certo candore la speranza che “la cultura del fare i conti permanga nei paesi sviluppati” e che “l’obiettivo non è la Torino-Lione”, ma “di fare i conti” perché “la decisione è politica”; il che francamente non è molto confortante, anche se Ponti lo considera un “impegno civile” che il commissario per la Tav Paolo Foietta, che ha definito il parere dei tecnici un’analisi truffa, non può vantare, perché, conclude Ponti, “quello è pagato, io no”.

Insomma, sembra quasi che i protagonisti considerino il Tav un pretesto che addirittura diventa una manna per quelli che invece hanno la preoccupazione dei posti di lavoro. 

Orbene, credo che se la politica decide di realizzare un’opera in base al rapporto costi/benefici e se i saperi, dal loro canto e sostanzialmente concordando, sostengono che le scelte devono essere confortate dai conti, c’è da preoccuparsi e anche molto perché la costruzione di un’opera che sconvolge in maniera traumatica un territorio viene presa nel pianeta terra malato. Un pianeta che ha problemi come la fame, le guerre, le migrazioni, l’assenza di prospettive e, insieme, le questioni molto serie dell’ambiente, del suo riscaldamento, della produzione energetica e dell’acqua che richiedono scelte globali ponderate che solo una scienza che operi in modo neutrale e non a pagamento può indicare. 

E perciò pare legittimo domandarsi se il Mose l’abbiano fatto i politici o i tecnici e se la cosa non si stia riproducendo con il Tav, proponendo uno schema che dice di una normale manifestazione di uno spaventoso e irrisolvibile conflitto di interessi.

Credo che, alla luce di quanto accade, sia il caso di riservare una grande e necessaria attenzione allo status escatologico di cui godono le scienze e i saperi proprio perché, se le scelte politiche sono condizionate al parere di un tecnico o esperto, esse non possono che essere irrazionali, cioè estranee al destino dell’uomo. 

Il ministro dei Trasporti Danilo Toninelli

In tema di scienza, di élite e di populismi, le considerazioni che stimola la vicenda Tav sono ancora molte e mi riprometto di tornarci in altre occasioni. 

Ma non posso tacere, a conclusione, della pochezza di una politica che considera le opere in rapporto a posti di lavoro più o meno reali, ovviando ai profitti e ai disastri ambientali di ogni genere – in quale dimenticatoio sono state seppellite Marghera e la sentenza sulla Montedison? – provocati da chi si vuol fare apparire nella falsa veste di benefattore perché, bontà sua, creatore di occupazione.  

Se questo è veramente il problema, allora non c’è scampo: siamo tutti prigionieri di un destino inesorabile al quale è salutare adeguarsi, come scrive Dostojevskij nella Leggenda del Grande Inquisitore.

Tav, paradigma delle grandi opere ultima modifica: 2019-02-18T21:47:59+01:00 da FRANCO AVICOLLI
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