È innanzitutto un luogo di uso collettivo (nei paesi anglosassoni è un “common”). Ha aspetto rustico e generalmente privo di percorsi definiti al suo interno. Luogo di svago, passeggio, pascolo degli animali posseduti in città. Viene consentito ai margini della città, al bordo di strade importanti o di fiumi (toh, il Sile), per funzioni che non è sembrato opportuno includere nell’abitato o entro le mura.
Nel prato sono tollerate azioni o attività non ammesse nella città, perché disdicevoli, sgradevoli, trasgressive, al limite se non fuori della legalità. Vi si possono insediare nomadi, fiere, spettacoli; però sempre e comunque di passaggio, per tempi limitati.
È il luogo del regolamento dei conti, dei duelli. Un ragazzino che conosco ha detto al bullo che l’importunava: “Se hai le *** fatti trovare dopo scuola a Prato Fiera”.
Treviso ha avuto almeno due prati: il primo era l’attuale piazza S. Maria Maggiore, fin che è rimasta al di fuori delle mura scaligere. Nel tentativo di far ravvedere gli uomini d’onore, che là si davano appuntamento per il duello, una pia nobildonna, per grazia ricevuta, ha fatto erigere un capitello su cui la leggenda dice che Tommaso da Modena avrebbe dipinto l’immagine miracolosa, che esiste ancora nel Santuario di S. Maria Maggiore.
Quando, agli inizi del 1500, fra’ Giocondo tentò di demolire la chiesa che aveva inglobato il capitello per dare libero corso ai carriaggi e alle truppe di difesa dalle milizie della Lega di Cambrai, la città insorse e il tratto di muro con l’affresco è stato salvato.
Il prato però è rimasto inserito entro la cerchia murata, e rinchiusa è stata pure l’Ortaglia (attuale città Giardino), così si è dovuto creare un nuovo prato fuori le mura, Prato di Fiera.
Prato di Fiera, il prato di Treviso, trova corrispondenza in molte delle città del vecchio continente. Il termine prato, secondo qualcuno, deriverebbe dal tedesco “braiden” (ma in latino troviamo “pratus”) ed è adattato in altre lingue della vecchia Europa in prato, prado, predera, pré; in italiano trasformato anche in Brera (Milano), Brà (Verona); è anche chiamato campo, piana, esplanade, plain, ejido.
Così, girando per l’Europa, troviamo Il Prado a Madrid, il Prado de San Sebastian a Siviglia, Saint Germain des Prés e Pré aux Clercs a Parigi, Plain de Saint Germain a Marsiglia, l’Esplanade a Nîmes, per non dire della nostra città di Prato, del Prato della Valle a Padova, del Prato del Testaccio a Roma, del prato di Ognissanti a Firenze, del Prato di S. Alessandro a Bergamo, fino al nuovo mondo: il Prado e il Paseo del Prado a la Habana.
Con il crescere delle città molti prati sono stati trasformati in luoghi urbani e di alcuni si è persa la memoria.
Per saperne di più, si rinvia ai materiali del workshop della Fondazione Benetton di poco tempo fa (febbraio 2017), che ha avuto il merito di richiamare l’attenzione sul Prato della Fiera.
Con il risveglio dell’attenzione sorgono le proposte di interventi.
A priori non va esclusa una possibile trasformazione (non ci sarebbe altrimenti Prato della Valle), ma viene da chiedersi se abbiamo le visioni e le risorse adeguate per interventi di tale levatura e nobiltà.
Farne un prato all’inglese, proposta già migliorativa dell’abbandono in cui versa, tradirebbe la sua origine – la conoscenza storica insegna – di spazio multi funzionale.
Più rispettoso sarebbe mantenerne la flessibilità d’uso; cominciare a dotarlo di elementari reti di servizio interrate: acqua, energia elettrica (ora ci sono squallidi armadi elettrici fuori terra), un impianto di illuminazione discreto e modulabile nell’intensità, connettività web. E poi disporre elementi che favoriscano l’incontro di persone (la municipalità di Parigi ha disseminato i parchi di sedie spostabili: “la gente si siede e poi qualcosa succede”; la citazione non è mia, non ricordo da chi l’ho sentita), coperture smontabili (tensostrutture, si dice; a Pieve di Soligo ce n’è una di gradevole).
In ogni caso si parta dalla conoscenza e dalla recensione di quello che è stato fatto altrove. Nella vecchia Europa si trovano esempi di ottimi interventi.
Arrivando tardi, possiamo far tesoro dell’esperienza altrui: l’archivio della Fondazione Benetton è una miniera. Peraltro, la Fondazione ha recentemente pubblicato un volume: “Prati urbani, i prati collettivi nel paesaggio delle città”, che contiene anche un saggio su Prato della Fiera.

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