Leggendo il bel libro di Massimo Franco, “C’era una volta Andreotti” (Solferino), si capisce l’importanza del contesto. La forza di un sistema. Senza il contesto in cui visse, senza il sistema solare democristiano, al cui centro c’era lui, la figura di Giulio Andreotti non è nemmeno l’ombra, oggi, di quel personaggio che fu per decenni, protagonista politico di spicco, se non il principale, del dopoguerra italiano, e fino a non molti anni fa. Se nell’epoca della prima repubblica fu un leader politico “larger than life” – più grande delle sue dimensioni reali -, nell’epoca successiva, segnata dal processo per mafia, e poi nella cosiddetta seconda repubblica, la sua figura si rimpicciolisce sempre più e, con il tempo che passa, si sbiadisce, lasciando molto poco di sé alle spalle, per finire quasi nell’oblìo.
Non c’è un lascito della sua lunga esperienza al vertice del potere, non ci sono eredi, e la sua immagine, neppure nei lati diabolici cucitigli addosso dagli avversari, non sembra resistere all’usura del tempo.
Il centenario della sua nascita, nei giorni scorsi, è stato celebrato con un paio di mostre a Roma, con discorsi, con qualche iniziativa – comprese alcune presentazioni del libro di Massimo Franco: nel complesso una ricorrenza modesta, che solo in piccola parte ha riattizzato polemiche, interessi, passioni, simpatie, come pure spesso accade nelle rievocazioni di personaggi ingombranti del passato, specie se controversi. Andreotti non interessa più. E chissà se e come finirà nei futuri libri di storia.
Non è solo il prezzo che egli paga a distanza alla sua mediocre mediocritas, perfino coltivata e ostentata da Andreotti stesso. La ragione principale è che egli fu parte attiva e al tempo stesso prodotto di un sistema politico che oggi si fa molta fatica perfino a concettualizzare, nei suoi funzionamenti, nelle sue dinamiche, nei suoi rituali, nei suoi ritmi; si fa fatica a dargli un senso, una logica. Un sistema chiuso che, per i contemporanei, era – non solo sembrava – destinato all’eternità. Il pintoriano “non moriremo democristiani” era più disperazione rassegnata che parole di sfida. Eppure era un sistema intrinsecamente fragile, vulnerabile, proprio perché – visto a posteriori – asfittico. Nella società liquida, se non gassosa, di oggi è quasi impossibile “rivivere”, e quindi capire, quel sistema per decenni cristallizzato, che pure è molto vicino a noi nel tempo.
Un sistema malato. Non è qui la sede per fare ragionamenti complicati su quanto e come l’Italia abbia beneficiato da quel sistema, sebbene malato, o sui mali che ha prodotto e che sono tra le ragioni di molti dei problemi odierni. Andreotti è lo specchio di quel sistema malato. Avulsa da quel contesto, la sua biografia potrebbe esser letta come una storia clinica. E in effetti il libro di Franco può essere considerato un bel testo di psicopolitica.
E sì, si può anche sorridere – Massimo Franco, tra l’altro, è uno scrittore serio con un grande e fine gusto per il comico e con una straordinaria capacità nel rappresentarlo nei suoi libri – si può sorridere leggendo, per esempio, le pagine sulla “raccomandazione, male necessario” come pratica italiana diffusa, quintessenza dell’andreottismo, o le abitudini e lo stile dell’on. Andreotti, per raccogliere e consolidare il consenso, per tessere le sue relazioni, in Ciociaria come in Medio Oriente o oltreoceano. Ma se ne può davvero sorridere, senza coglierne le radici di tanti mali profondi che continuano ad affliggere la nostra società?
Di quel sistema Andreotti era figlio. Su quel sistema galleggiava. Venuto meno, è precipitato in fondo anche lui. Moro e Fanfani, i due cavalli di razza della Dc, avevano molta più ambizione del “cavaglie da corsa”, come fu definito l’esordiente politico Andreotti nella sua Ciociaria. Moro e Fanfani, loro sì avranno spazio e considerazione nei libri di storia. Loro non erano solo potere per il potere, che pure avevano maneggiato e gestito tanto quanto Andreotti. Ma se per Andreotti era solo quello, e lo definiva “concretezza”, e così chiamò la rivista della sua corrente, per Moro e Fanfani il potere era dentro una visione, dentro un’idea d’Italia, dentro un processo riformatore che, lungo il percorso evolutivo, avrebbe visto confluire anche i contributi della sinistra, perfino dei comunisti.
Quel percorso, come si sa, fu ostracizzato. E bloccato, anche con l’eliminazione di Moro. Successivamente anche il tentativo di De Mita fallì, ed era un tentativo di modernizzare il sistema, riformando innanzitutto la Dc, con la rottamazione dei ras, e di Andreotti in primis. In entrambi i casi, il ruolo di Andreotti non sarà stato quello di Belzebù, di certo fu quello del custode intransigente della conservazione del sistema, in alleanza stretta con le gerarchie cattoliche e con il Vaticano, e con poteri opachi.
Se non il massimo, fu tra i massimi responsabili della fine ingloriosa del “regime” di cui fu protagonista ed emblema. In quel che accade dopo, in epoca berlusconiana e in quella successiva, è lampante come la sua forza fosse unicamente dentro lo schema della Prima repubblica e della guerra fredda, terminate le quali era una figura inconsistente, senza spessore e senza bussola, per certi versi patetica, anche nel suo cercare agganci nel mondo berlusconiano, che gli era del tutto estraneo, pur di restare a galla.
E l’Andreotti che piace alla sinistra, della politica mediorientale e mediterranea? Delle relazioni con il Cremlino e con leader come Castro e Arafat? Le pagine di Franco dedicano spazio a questa parte della biografia di Andreotti. Ma andrebbe ricordato che furono soprattutto Fanfani e Moro ad aprire gli orizzonti italiani oltre i confini e il ruolo assegnati all’Italia dalla Nato. Mattei, legato alla “base” di Marcora e a Fanfani, fu fatto fuori. E in seguito anche Moro stesso. E ai tempi in cui Moro e Fanfani aprivano, a sinistra in Italia e, sul piano internazionale, a realtà non gradite agli ambienti atlantici, Andreotti non era precisamente su quella lunghezza d’onda, ma flirtava, come Cossiga d’altra parte, con personaggi e sottoboschi oscuri, e anche eversivi, inquietanti custodi di un filo-americanismo servile e ottuso.
“C’era una volta Andreotti” è un libro che ha tante pagine, eppure lo leggi d’un fiato. Ma a volte il lettore ha la sensazione di muoversi dentro la bolla d’un tempo senza tempo che ovatta anche fatti scabrosi. Come molti biografi, Franco è forse irretito dal suo personaggio? No, e seppure lo fosse, non è una biografia encomiastica. Caso mai venata di nostalgia per la scena politica che vide Andreotti protagonista. Se questo è consapevolmente o inconsapevolmente il sottotesto del libro, l’effetto è opposto: nessun rimpianto, per fortuna non siamo morti democristiani.

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