Può non piacere agli aedi della pace romantica, quella dei migliori sentimenti. La pace impossibile. Può non piacere la figura del genero-consigliere che sfrutta la parentela, ma anche i suoi legami personali con alcuni dei protagonisti della politica in Medio Oriente, per indirizzare il “Deal of the Century”.
Eppure, se si fa un salutare bagno di realtà, se ci si libera da pregiudizi di parte, e si smette (vale per la comunicazione) di vestire i panni dei tifosi dell’una o dell’altra parte, allora si finirebbe per apprezzare i presupposti che supportano l’iniziativa di Jared Kushner nella stesura del “Piano del secolo” per la pace tra Israele e i palestinesi, e che spiega il suo recentissimo tour mediorientale del consigliere-genero di The Donald, che lo ha portato in Arabia Saudita, Oman, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Qatar: soldi e investimenti sono precondizioni della pace. Sarà poco romantico, ma è così.
E soldi e investimenti possono venire soprattutto dalle petromonarchie del Golfo. Gli Stati Uniti sperano di arrivare a un nuovo approccio per conseguire un accordo di pace tra israeliani e palestinesi, dice Kushner in un’intervista all’emittente Sky News Arabia, diffusa in concomitanza della sua visita in alcuni paesi del Golfo per illustrare gli aspetti economici del piano di pace del secolo più volte annunciato da Donald Trump. “Ci sono molte sfide e molte opportunità”, ha spiegato Kushner, parlando del piano di pace che “porterà pace e stabilità nella regione”.
Nella sua intervista, Kushner ha sottolineato che senza il raggiungimento della pace “l’economia palestinese resterà debole”. Inoltre, il consigliere di Trump ha auspicato che la Striscia di Gaza e la Cisgiordania siano amministrate da un unico governo. Infine, “il conflitto israelo-palestinese è stato usato per alimentare l’estremismo”, ha aggiunto Kushner, ribadendo che “l’Iran è la più grande minaccia per la regione”.
Il cuore di questo piano, rivelano ad Haaretz fonti governative a Washington, sarà in Cisgiordania e a Gaza. L’amministrazione Usa sta cercando di promuovere progetti economici nel Sinai settentrionale che potrebbero migliorare la situazione, sempre più degradata, nella Striscia. Nell’immediato, l’obiettivo principale di Washington è vedere l’Autorità nazionale palestinese ripristinare il proprio controllo sull’enclave costiera, da undici anni in mano ad Hamas. A questo fine, nella visione statunitense, saranno decisivi i finanziamenti delle petromonarchie del Golfo per la ricostruzione di Gaza.

L’amministrazione Usa ha provato lo scorso anno a promuovere una serie di iniziative minori che potrebbero creare uno slancio positivo per il processo di pace e mostrare segni di progresso sul terreno. Alcune di queste iniziative sono riuscite – ad esempio, un accordo idrico congiunto israelo-palestinese firmato l’estate scorsa – ma altri sono falliti a causa di ostacoli politici a Gerusalemme e Ramallah. Ad esempio, il ministero della difesa israeliano aveva proposto un piano l’anno scorso, fortemente sostenuto dai vertici militari, per ingrandire la città palestinese di Qalqilya, situata nella West Bank, a ridosso di Gerusalemme. Il piano di Qalqilya avrebbe permesso alla municipalità palestinese di costruire nuove case per migliaia di residenti. Il piano è stato respinto dal governo israeliano a causa delle pressioni esercitate dal partito di destra Habayit Hayehudi e da alcuni membri della Knesset del Likud.
Ma la Casa Bianca quel progetto non lo ha accantonato ma, al contrario, lo ha inserito nel “piano del secolo”. Confida una fonte dell’amministrazione Usa a Haaretz:
Vorremmo che il piano parlasse da solo, la gente capirà che dopo l’accordo staranno tutti meglio che senza: crediamo che le persone coinvolte siano interessate al loro futuro e al futuro dei loro figli. Questo piano darà molte più opportunità a tutti in futuro rispetto alla situazione che hanno ora.
Una situazione apocalittica. Gaza sta morendo. L’ultimo, documentato grido d’allarme, è stato lanciato da Oxfam. L’assedio sta privando una popolazione di quasi due milioni di abitanti, il 56 per cento al di sotto dei 18 anni, del bene più vitale: l’acqua.A oltre due anni dal sanguinoso conflitto che nel 2014 distrusse buona parte del sistema idrico e fognario di Gaza, il sistema straordinario disegnato dalla comunità internazionale per la ricostruzione post-bellica (il cosiddetto Gaza Reconstruction Mechanism-Grm) non riesce ancora a rispondere ai bisogni degli abitanti della Striscia “intrappolati” in una delle zone più densamente popolate del mondo
Una situazione drammatica, rimarca il report di Oxfam, aggravata degli effetti del decennale blocco di Israele sulla Striscia. Basti pensare che il 95 per cento della popolazione – anche solo per bere e cucinare – dipende dall’acqua marina desalinizzata fornita dalle autocisterne private, semplicemente perché l’acqua fornita dalla rete idrica municipale (che presenta oltre 40 per cento di perdite) non è potabile o perché oltre quarantamila abitanti non sono allacciati alla rete.
A questo si aggiunge un sistema fognario del tutto inadeguato con oltre un terzo delle famiglie che non è connesso al sistema delle acque reflue. Una situazione di carenza idrica di cui fanno le spese soprattutto donne e bambini, che in molti casi sono costretti a lavarsi, bere e cucinare con acqua contaminata e si trovano esposti così al rischio di diarrea, vomito e disidratazione.

Le Nazioni Unite annunciano che entro il 2020 sarà praticamente impossibile vivere a Gaza per la mancanza di energia elettrica, il più alto tasso di disoccupazione al mondo e l’impossibilità per la popolazione di accedere anche a beni essenziali come cibo e, per l’appunto, acqua pulita. Hamas sa bene di non poter reggere questa situazione. Così pure l’Anp di Abu Mazen. ”Israele e la dirigenza palestinese dovranno scendere a compromessi nel piano in arrivo”, ha avvertito lo stesso Kushner intervenendo ad una sessione della recente Conferenza di Varsavia sul medio Oriente.
Un messaggio che solo in apparenza sembra riguardare soprattutto la leadership palestinese, che ha disertato Varsavia perché, ha motivato il segretario generale dell’Olp e capo negoziatore palestinese Saeb Erekat, la conferenza “è un tentativo di eludere l’iniziativa di pace araba e distruggere il progetto nazionale palestinese”. Una reazione che l’amministrazione Usa aveva messo in conto. Ma il riferimento di Kushner ai compromessi previsti dal “Deal of the Century” investe Israele e l’amico Netanyahu. Perché, sia pure in scala territorialmente ridotta, il “Piano del secolo” prevede la nascita di uno Stato palestinese.
Rinviare al dopo 9 aprile la presentazione del Piano – convergono analisti politici a Gerusalemme – significa, nell’ottica americana, non mettere in difficoltà Netanyahu rispetto alla destra più oltranzista, che della nascita di uno Stato palestinese, anche se in formato mignon, non ne vuole sentir parlare, neanche dall’amico della Casa Bianca.
Soldi e investimenti. In funzione di una nuova formulazione, rivisitata e corretta dagli ideatori del “Deal of the Century”, della soluzione a “due Stati”. Interessante in proposito è quanto scritto dal sito israeliano Debka, al quale fonti dell’intelligence israeliana hanno delineato alcuni elementi essenziali del nuovo piano. I cui contenuti, come detto, saranno annunciati non prima di metà giugno.
Lo Stato palestinese sarà uno Stato “con una sovranità limitata su circa metà della Cisgiordania e tutta la Striscia di Gaza“. Quindi quello è il vincolo territoriale. La sicurezza sarà in mano agli israeliani, così come i valichi di frontiera e la Valle del Giordano sarà pienamente sotto il controllo delle autorità israeliane.
Quanto a Gerusalemme, l’idea del piano Kushner-Greenblatt (l’inviato Usa per il Medio Oriente) è che la parte orientale e i quartieri arabi, a eccezione della Città Vecchia, passeranno sotto la giurisdizione palestinese. E la capitale proposta per questo Stato palestinese sarà quella stessa Abu Dis, città-sobborgo di Gerusalemme Est. Per quanto riguarda le moscheee i luoghi sacri dell’islam, saranno sotto giurisdizione di Palestina e Giordania, in condivisione.
Queste idee Kushner le ha condivise con quello che resta, nonostante l’affaire-Khashoggi, il più stretto alleato, assieme a Israele, degli Usa nella Regione: l’Arabia Saudita. Di più. A pesare, e orientare, è anche l’amicizia personale che lega il consigliere-genero dell’inquilino della Casa Bianca al principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (MbS per i media internazionali).

Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Bahrein Oman – i Paesi meta del tour diplomatico di Kushner- sono parte, assieme ad Egitto, Giordania, del fronte sunnita che, con Israele, condividono la necessità di arginare la penetrazione iraniana in Medio Oriente, contrastando l’affermarsi della mezzaluna rossa sciita sulla direttrice Baghdad, Damasco, Beirut. E Gaza.
A questo è particolarmente interessato, per l’appunto, MbS, fautore dell’avvicinamento, in funzione anti-iraniana, di Riyadh a Tel Aviv: per il futuro sovrano, e attuale primo vice primo ministro e ministro della difesa saudita, togliere ai suoi nemici regionali la “carta palestinese” sarebbe un risultato rilevante, da far pesare nella definizione dei nuovi equilibri regionali. Un approccio condiviso dalle petromonarchie del Golfo – dagli Emirati Arabi Uniti al Qatar – che hanno una potente arma di convinzione di massa: i miliardi da investire sulla ricostruzione di Gaza e il sostegno all’economia palestinese ormai sull’orlo del collasso.
In tutto questo, amara nota finale, l’Europa non è contemplata. Esclusa dalla geopolitica mediorientale e anche dagli affari miliardari che il “Deal of the Century” porta con sé.

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2 commenti
Mi dispiace leggere quanto scrive De Giovannangeli, perché mi sembra l’espressione (nella migliore delle ipotesi) di una sorta di “sindrome di Stoccolma” che comunque lui non dovrebbe avere non essendo un palestinese. Scrivere infatti:”Una situazione drammatica, rimarca il report di Oxfam, aggravata degli effetti del decennale blocco di Israele sulla Striscia.” è inesatto (quanto meno) a mio modesto giudizio l’uso di quel “aggravata” riferita al blocco, che porta a ritenere naturale e normale le condizioni palestinesi a Gaza, che il blocco stesso aggraverebbe … soltanto.
Si invertono così i ruoli di causa-effetto rispetto alle origini storiche della “striscia di Gaza”, e si mette sullo stesso piano il ruolo di Israele e le sbagliate azioni palestinesi. Una giustificazione (sostanziale) simile a quella che potrebbe assumere un sequestrato nei confronti del suo carceriere (da cui il riferimento alla sindrome) che l’autore però non vive.
Lascio liberi di decidere se sono di parte o meno, ma giusto per conoscenza inserisco un link ad un articolo (con video) della BBC (che è “comunicazione” e forse di parte rispetto al giudizio di De Giovannangeli?): https://www.bbc.com/news/world-middle-east-47399541
PS: un detto napoletano recita: “tre sono i potenti, i papa, i re e chi non tiene niente” chi non ha niente sbaglia ugualmente (come certamente fanno anche i palestinesi di Gaza) ma nello sbagliare ha meno colpe (o almeno delle attenuanti) per un agire che è dettato dalle condizioni drammatiche in cui vive, rispetto a di chi tali condizioni le crea.
Il problema della pace, non esiste. Da una parte abbiamo una forza occupante, finanziata per 3,8 miliardi di dollari dagli americani, economicamente avanzanta e con una forza militare enorme. Dall’altra, abbiamo una popolazione semitica, comunemente identificata con il nome di “Palestinesi” -dal nome che da 2000 anni ha quell’area- totalmente allo stremo e senza i servizi essenziali per vivere -acqua, cibo, elettricita’- , senza alcuna liberta’ di movimento, competamente soggiogata alle angherie della forza illegale dell’esercito occupante. Com’e’ possibile sostenere che ci sia una guerra in atto? la guerra si fa almeno in due… Qui manca il secondo. Israele non vuole assolutamente che ci sia pace, ha avviato un processo di annessione dello stato palestinese da decenni e – tramite le leggi ebraiche- ha di fatto espropriato del dirittto di autodeterminazione del popolo palestinese.