Una volta c’era solo il mare

"Piange il cuore che proprio a Eraclea, in quel margine liquido, lì, tra la Piave e il Livenza, si sia infilata la criminalità camorristica". Un grande scrittore veneto riflette sugli ultimi fatti che hanno portato la località di villeggiatura alla ribalta della cronaca
FULVIO ERVAS
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Negli anni Sessanta che esistesse il mare, e la spiaggia, si sapeva. 

Si sapeva di Jesolo e di Caorle, Bibione era già l’oltremare, la terra lontana e inarrivabile e Lignano solo un sentito dire.

Erano i margini di questa nostra terra, margini bagnati, confini per le onde, dove erano sbarcati alberghi, negozi e camping. Camping era una parola esotica, cosa si potesse fare in un camping era una faccenda da tedeschi, era il luogo di raduno della classe operaia teutonica con le loro Prinz-NSU, macchine di altra stoffa rispetto alle piccole Fiat del proletariato di periferia.

Io lo vidi a dieci anni il mare, era Jesolo. Spiaggia, pochi bagnanti e un’acqua azzurra. 

L’acqua azzurra è scomparsa dai nostri margini, l’acqua pulita è scomparsa anche dalle nostre reti idriche, dalle arterie e vene di fiumi e canali, seppellendo l’arte idraulica (che fu della Serenissima) dentro a melme stagnanti. Più di tutti fa pena la Piave, ex Fiume Sacro alla Patria, declassato nel colore e nelle grave, mai più selvagge e intricate.

A Jesolo ci andavo in corriera e tornavo in corriera, era il posto per i turisti della crescita economica, disciplinati, demograficamente corretti con i loro tre figli per coppia a riempire le casette di villeggiatura, lungo le strade parallele alle linee di costa, mentre i redditi più alti inspiravano salsedine di fronte al mare, negli alberghi che avevano piantato radici di cemento ai limiti della sabbia, irrispettosi e audaci, convinti di durare a lungo, e soprattutto far più soldi dei loro dirimpettai, sulle coste dalmate, poggiati su rocce e lambiti da acque pulite.

Chi era più intellettuale, anche inconsciamente, sceglieva Caorle, che aveva una storia, una struttura urbanistica, piazzette vere e considerava il turismo lanciato su Jesolo un segno del declino dei tempi, benché i litorali, i nostri margini liquidi, evolvessero ovunque nella direzione dei camping, delle discoteche, nell’atmosfera da luna park che faceva del mare, delle onde, della sabbia, e della salsedine, un insieme di forze impercettibili, inessenziali. Sfondo, statico.

Di speciale, Caorle aveva non solo il campanile del duomo, ma anche il fatto che non c’era una Caorle mare, che il paese era la sua spiaggia e il suo mare.

C’era, invece, un Jesolo paese e un Lido di Jesolo, così come c’era una Eraclea paese e una Eraclea mare. 

I paesi erano la retroguardia, le trincee del riposo dopo le stagioni estive, piccole repubbliche che avevano perso il controllo delle colonie marine, che forse non avevano mai avuto, perché sul loro mare erano arrivati mostri economici assai più potenti del panettiere, del piccolo immobiliarista, del costruttore edile a dimensione familiare.

Nelle piccole repubbliche si esercitava il diritto di voto, e gli eletti si facevano carico delle incombenze amministrative, che lievitavano nei periodi delle vacanze, incassavano un po’ di ricadute fiscali, ma le leve economiche dei lidi, i grandi incassi, fluivano nei mille rivoli dei capitali investiti, nelle società che stavano dove conveniva, anche lontano da Jesolo paese e da Eraclea paese.

Però Eraclea mare era una cosa un po’ strana.

Era, nell’immaginario, un luogo di una certa libertà, non intellettuale come Caorle, non alla moda come Jesolo, qualcosa di autentico, in un certo senso libero: facilità di accesso, meno confusione, meno ostentazione, dove si arrivava, ci si stendeva, ci si scottava e si tornava a casa. Con la macchina, soprattutto.

Eraclea mare, poi, è compresa nel brandello di terra tra le foci della Piave e del Livenza, è una terra di mezzo tra i due colossi delle vacanze e, come accade a ogni terra di mezzo, l’essere circondati è una sfida permanente, una comparazione infinita e, anche, la coscienza permanente di un limite: né Jesolo (oltre cinque milioni di turisti e con Cavallino-Treporti altri sette all’anno), né Caorle (oltre quattro milioni annui).

Eraclea mare supera i 500.000 turisti all’anno. 

Abbastanza o abbastanza poco? E negli ultimi anni, come dicono le statistiche, i turisti calano.

Credo che non debba essere facile per un’imprenditoria di margine, anche di utili marginali, rimanere sempre e comunque a galla.

Rimanere a galla con onore, soprattutto.

C’è chi evade le tasse, recupera una quota di mancati profitti a scapito della fiscalità generale, le dinamiche dell’economia lo mordono e lui si fa mantenere da quelli che le tasse le pagano. 

Alle volte non è il peggiore dei comportamenti.

C’è chi va oltre, e cerca alleati. Non nei cittadini, tantomeno nelle istituzioni, tantomeno affrontando le sfide dei processi economici.

Cerca lubrificanti nel mercato illegale, soldi che sgorgano dall’economia criminale e che devono, necessariamente, venire reinvestiti: il denaro è carta, l’economia lo trasforma in capitale.

Piange il cuore che proprio a Eraclea, in quel margine liquido, lì, tra la Piave e il Livenza, si sia infilata la criminalità camorristica.

Che si infila in ogni angolo del paese, naturalmente. Dove riesce, dove fa affari, dove trova sponde politiche e imprenditoriali.

Soggetti rampanti, avventurieri, avidi, escluderei sprovveduti.

Certo, c’è da capire se il Veneto della corrutela macroscopica, che solo la grande impresa può sfoggiare; se i crimini ambientali che traforano gli ecosistemi regionali; se le infiltrazioni malavitose che emergono puntiformi nelle aree più fragili, siano tutti travasi, da un organo all’altro, di uno stesso processo di entropizzazione collettiva.

Il punto, per definire il problema, rimane quanto in profondità siano penetrate le ife fungine, se dall’epidermide siano arrivate nei tessuti più vitali.

E l’indicatore non può essere soltanto il mero numero di crimini o la relazione tra il PIL di un territorio e la sua percentuale di economia illegale.

L’indicatore siamo noi. I cittadini.

Se nei bar, se all’edicola, al supermercato, in famiglia, nelle scuole, i fatti criminosi sono ignorati, non menzionati o ridimensionati, Houston abbiamo un problema.

Se la colpa, come nel caso dei casalesi a Eraclea, sia solo dei casalesi stessi e i poveri autoctoni siano solo vittime delle sirene, poveri cristi spinti dalle difficoltà economiche a finanziarsi, indirettamente certo, con i proventi dal mercato della droga (che forse consumano i loro stessi figli) o da quello della prostituzione (che non disdegnano del tutto); se la colpa sia tutta dell’apparato di giustizia che avrebbe deliberatamente mandato il “male” ad infettare il “bene” delle nostre comunità, allora Houston abbiamo un grave problema.

Ma confido che tanta ingenuità sia solo una reazione di breve durata, che questa terra impari a guardare con maggior attenzione, ad essere non solo laboriosa ma più coraggiosa.

Una volta c’era solo il mare ultima modifica: 2019-03-07T17:17:06+01:00 da FULVIO ERVAS
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