Anarchici per bene, in cerca di giustizia

In libreria, con Adelphi, un vecchio romanzo di Georges Simenon, "Il sospettato", storia di un anarchico e di un attentato che non s'ha da fare
ROBERTO ELLERO
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Poveri anarchici. Immancabilmente “insurrezionalisti” secondo l’odierna vulgata mediatica, specie televisiva, benché – ragionevolmente – nessuna possibile insurrezione  sia alle viste da queste nostre parti. E dunque ammassati nell’indistinto calderone della sovversione, magari insieme a black bloc e casseur, con buona pace di quel loro ideale, forse d’altri tempi ma ridotto nel linguaggio corrente a sinonimo di disordine e confusione. “Anarchia non vuol dire bombe ma giustizia nella libertà” reclamava l’innocente Pinelli nella ballata in suo nome composta all’indomani dell’irrisolto suicidio, dal quarto piano della questura di Milano. Mai luogo a procedere, come si ricorderà, anche se parliamo di memorie sbiadite di mezzo secolo fa, con gli autori veri della strage di Milano – fascisti e servizi – rimasti impuniti da quel 12 dicembre 1969, bombe di piazza Fontana.

In compenso,  dista soltanto – si fa per dire – una ventina d’anni uno degli anarchici più simpatici del cinema: il Felice Andreasi di “Pane e tulipani” (2000), per la regia di Silvio Soldini, fiorista con bottega nel venezianissimo campiello dei Miracoli, dove trova lavoro Rosalba (Licia Maglietta), in fuga dalla sua demoralizzante famiglia pescarese. Tipi goldoniani: l’anarchico è un burbero benefico, che prende in simpatia Rosalba perché gli ricorda Vera Zasulič. E chi sarà mai? Forse una vecchia fiamma o soltanto una vicina di casa… La cosa finisce lì nel film, che avrà il suo lieto fine proprio in quel medesimo campiello, con Rosalba finalmente fra le braccia di Fernando Girasole, l’indimenticabile cameriere islandese del compianto Bruno Ganz, con la fissa dell’Ariosto. 

Ma poi uno va a cercare notizie sul conto della Zasulič e le trova: Vera Ivanovna Zasulič all’anagrafe (1849-1919), libertaria russa che, fra le altre imprese,  ebbe a prendere a pistolettate il governatore di Pietroburgo, generale Trepov, nel luglio del 1877, pur senza ucciderlo. Il bello è che, processata da un tribunale civile l’anno dopo,  verrà assolta, tanto era notoria la brutalità del governatore nel malinteso esercizio delle sue funzioni. Sentenza entusiasmante per gli ambienti liberali di mezza Europa, decisamente sconcertante per il regime zarista, che metterà sotto inchiesta il presidente del tribunale cercando invano di riacciuffare anche la  Zasulič, nel frattempo espatriata in Svezia, per proseguire altrove e in altro modo la sua carriera rivoluzionaria. Sarà per qualche tempo sodale anche di Lenin, entrando inevitabilmente in rotta di collisione negli anni della rivoluzione.

Anarchici buoni o, quantomeno, a fin di bene.  Alla categoria appartiene di diritto anche Pierre Chave, povero cristo (o diavolo, fate voi, la semantica non distingue troppo), protagonista de “Il sospettato” (“Le suspect“), un vecchio romanzo di Georges Simenon scritto nel 1937 e ora in edizione italiana per iniziativa della solita benemerita Adelphi, traduzione di Marina Kanam.

Ricercato in Francia per diserzione, Chave se ne vive con la moglie e un figlio malaticcio (una qualche malattia infettiva, sperabilmente) alla periferia di Bruxelles. Campa come può,  di comparsate teatrali essenzialmente, e scrive, anche lui, di giustizia e di libertà, prodigandosi in ogni modo per propagandare il pensiero anarchico ma aborrendo ogni forma di violenza. Cosicché quando scopre che a  Parigi, in quel di Courbevoie, si sta progettando un attentato ad una fabbrica di aerei, con la morte quasi certa di parecchi operai innocenti, non sa trattenersi. Avverte che deve intervenire per scongiurare l’evento, tanto più perché ha motivo di credere che l’autore materiale prescelto per l’attentato sia Robert, un ragazzotto fragile e infelice che conosce bene, un tempo suo discepolo e ora alla mercé di chissà quali avventurieri senza scrupoli. 

Già, perché negli ambienti della sovversione non tutti giocano pulito, infiltrazioni e provocazioni sono all’ordine del giorno e le manipolazioni mangiano più di un’anima. Di recente Francesco Benigno, autorevole docente di Storia moderna alla Normale di Pisa, ha dato alle stampe per Einaudi “Terrore e terrorismo. Saggio storico sulla violenza politica”, dove ricordando in premessa la popolarità nei secoli del tirannicida Bruto presso i ribelli d’ogni epoca e contrada, ricostruisce le intricate vicende del tema in questione, dal terrore giacobino ai giorni nostri. E in più di un caso segnala che le motivazioni delle rivoluzione finiscono per fare il paio con quelle della reazione. Tanto che ad un certo punto la domanda di rito diviene: chi terrorizza chi? Rischiando l’arresto, Chave prende il primo treno per Parigi. E poi, una volta a destinazione, sfidando la riprovazione dei compagni, s’apposta sul lungosenna di Courbevoie per sventare l’attentato, possibilmente senza ricorrere alla polizia, da cui è comunque bene restare alla larga. Robert  è davvero implicato nella vicenda, gestita da oscuri personaggi venuti dall’Europa dell’Est e capitanati da un imprendibile K., la mente dell’attentato…

Come sempre, Simenon si legge d’un fiato e la sua principale abilità è nell’ordire le sue trame con un’asciuttezza di scrittura che dà conto di fatti e personaggi senza perdersi in troppe descrizioni o pedanti psicologismi. Eppure, il racconto si fa sempre “visivo” e pare di essere lì, fra i suoi malcapitati. Anche nel “Sospettato” gli ambienti restano quelli modesti e persino sordidi del consueto paesaggio sinistrato, cittadino o di campagna che sia, e i personaggi se la devono vedere con destini il più delle volte segnati in partenza. L’eredità, a ben vedere, è quella del naturalismo letterario del secondo Ottocento, Zola in testa per intenderci, ma se in quel caso, trattandosi di un destino profondamente originato dalle avverse condizioni sociali, scattava inevitabilmente la denuncia (a quello doveva servire la letteratura), il proposito  in fondo positivista è generalmente assente in Simenon, per il quale gli individui sono chiamati a rispondere interamente e sino in fondo dei loro destini. Un determinismo senza alibi né scorciatoie, ben presente anche nel cinema francese degli anni Trenta, quello del realismo poetico coevo del Front populaire.  L’impossibilità di sfuggire al proprio destino, solitamente tragico. Pare che il massimo campione di quella stagione, Jean Gabin, ci tenesse talmente tanto alla propria fine tragica sugli schermi da esigere la morte dei propri personaggi per contratto. Sicuramente una leggenda. Ma un titolo fra i tanti la dice lunga:L’angelo del male”, in originaleLa bête humaine”, di Jean Renoir (1938), dall’omonimo romanzo di Émile Zola…

E Chave? Il “suo” finale lo scoprirete leggendo il libro. Quel che possiamo anticipare, perché in fondo fa notizia, è che fra tante ecatombi simenoniane, la nuova alba non sarà per lui affatto tragica. L’empatia dell’autore per il personaggio, per riflesso l’empatia del lettore, sarà motivo di salvazione. E all’anarchico per bene, che naturalmente continuerà a professare e propagare le proprie idee, capiterà in sorte un commissario comprensivo, che indaga senza giudicare. Avete capito bene: pare un Maigret.

Anarchici per bene, in cerca di giustizia ultima modifica: 2019-03-09T18:54:27+01:00 da ROBERTO ELLERO
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