Dr. Verdelli, I presume

La cronaca dell’avventura in Rai, insieme al direttore generale inviato da Renzi, Antonio Campo Dall’Orto, nel libro del neo direttore di "Repubblica", un lottizzato a sua insaputa, dal titolo "Roma non perdona. Come la politica si è ripresa la Rai"
MICHELE MEZZA
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Sembra di ritrovarsi sullo sponde del lago Tanganica, in quel lontano novembre del 1871, dove s’incontrarono i due esploratori inglesi, David Livingstone e Henry Morton Stanley, unici bianchi per migliaia di chilometri, che si misero a parlare fittamente fra loro, in impeccabili tenute coloniali, attorniati da una miriade di indigeni che non contavano in quel momento. 

Così è la cronaca dell’avventura in Rai, insieme al direttore generale inviato da Renzi, Antonio Campo Dall’Orto, nel libro di Carlo Verdelli, un lottizzato a sua insaputa, dal titolo “Roma non perdona. Come la politica si è ripresa la Rai” (Feltrinelli).

Verdelli è indubitabilmente un giornalista di talento. Uno dei pochi che ancora ha il gusto e la passione di costruire macchine per l’informazione. Con una prestigiosa carriera maturata tutta negli apparati della carta stampata, e che oggi siede, giustamente, al vertice di uno di questi apparati, come il quotidiano la Repubblica, che deve essere “scaravoltato”, perché in inesorabile “ammaloramento”, per usare due neologismi che il nostro Verdelli–Stanley usa per spiegare la sua missione nel pianeta Rai-Tanganica. Scaravoltare – gli dice in un primo incontro cordiale la presidente dell’azienda pubblica Monica Maggioni – sta per rivoltare completamente. Ammaloramento è un termine dell’ingegneria impiantistica che sta per logoramento strutturale. Fra rivoluzione e decadenza scorre tutta questa storia.

Prima di procedere nella lettura del libro, devo, per correttezza, segnalare due motivi di conflitto di interessi che possono velare il mio giudizio. 

Sono stato per quasi quarant’anni giornalista del servizio pubblico, e per un paio di volte mi sono trovato a cercare di “scaravoltare” l’informazione Rai anch’io.

Dunque, molto di quello che scrive il nostro esploratore di talento su quel pianeta lo conosco per esperienza personale. Ma forse, visto che la carne è debole, il senso di appartenenza, o di competizione fra gli scaravoltamenti, potrebbe distorcere la mia visione.

Il libro di Verdelli infatti mi riporta inevitabilmente a esattamente vent’anni fa, quando partecipai al progetto di sviluppo di Rainews24, il primo canale all news televisivo italiano. Anche allora per la delusione del risultato scrissi un libro, di incomparabile anonimato rispetto a quello di Verdelli, che è già un caso, il cui titolo, eravamo nel 1999, è “Internet la madre di tutte le tv”. E a corredo del saggio riportai un diario di bordo di quel progetto che descrive scene e stati d’animo non dissimili da quelli che riporta il nostro Argonauta.

Lo dico, non per una vanità concorrenziale, quanto per segnalare forse l’unica vera debolezza dell’esperienza di Verdelli, come si ricava dal libro: una certa autoreferenzialità.

Nel suo racconto di quell’anno vissuto pericolosamente all’ombra del gigantesco cactus che appare e scompare dalla sua stanza a seconda delle sue fortune a viale Mazzini, l’autore mantiene un tono da astronauta atterrato in un campo di cipolle su un asteroide sconosciuto. Tutto è sempre la prima volta: ogni passo, ogni azione, ogni elementare funzione, diventa un evento storico. Ignorando che esattamente quelle idee, quei tentativi, quelle faticose mediazioni, si sono consumate mille volte in quei corridoi.

Il primo incontro con i giornalisti, la prima idea di unificare quel suk mediorientale che sono le decine di testate e centinaia di rubriche che balcanizzano il palinsesto Rai, lo stupore per la mancanza degli smartphone come standard produttivo, il primo proiettile da fuoco amico. Verdelli, esattamente come il prode Stanley in quello scorcio di Africa inesplorata, si aggira con occhi sgranati, sicuro di essere il primo pioniere, l’unico bianco “civile”.

Il fatto poi che quasi sempre abbia anche ragione, cioè effettivamente, all’alba del 2016, il fatto di pensare di dare massa critica all’offerta del servizio pubblico sulla rete, riposizionando l’intero brand Rai sul mercato dell’informazione in virtù della pertinenza dei suoi flussi con i destinatari, sia considerata una inedita “scaravoltata”, non può non rafforzare in lui e nel suo “timido” mentore, Campo Dall’Orto, l’idea di trovarsi solo loro due bianchi in mezzo a selvaggi.

Ma allungando la sua curiosità anche al passato, facilmente si sarebbero scoperti i precedenti.

Pensiamo a cosa accadde in Rai nel 1992, quando lo tsunami di Mani pulite indebolì la presa politica e per un paio d’anni, un gruppo di gentiluomini e gentildonne si trovarono al vertice della Rai. Era il consiglio di amministrazione dei cosiddetti professori, presieduto da Claudio De Mattè, il direttore della scuola d’azienda della Bocconi, con direttore generale Gianni Locatelli, già direttore de Il Sole 24 ore. Fu quella la Rai in cui vennero unificati i giornali radio, creando un primo esempio di massa critica dell’informazione. Anche allora i cactus volavano, i giornalisti si opponevano, le burocrazie aziendali recalcitravano. Ma l’editore del momento, la politica, aveva altro per la testa che intervenire a frenare i bollenti spiriti dei professori.

Non così accadde qualche anno dopo, con la gestione di Roberto Zaccaria presidente e Pierluigi Celli direttore generale. Si passò alla divisionalizzazione dell’azienda, presupponendo un mandato parlamentare a semplificare l’azienda, anche con una prospettiva di parziale privatizzazione. Contemporaneamente si autorizzò il progetto di Rainews24, che prevedeva, eravamo nel lontanissimo 1998, di usare l’allora ancora nascente rete come fabbrica e non solo come vetrina, per rendere innovativo sia il processo produttivo che il linguaggio delle news della Rai: reazioni? Peggio che a Beirut. La resistenza fu casa per casa: i giornalisti sempre con l’elmetto in testa e i dirigenti aziendali asserragliati nei propri fortini la bandiera era comune: “Dio me l’ha data (la rete o la testata) nessuno me la toglie”. Poi vennero le elezioni del 2001 e la politica girò pagina su ambizioni e modernizzazione.

Non ci voleva molto a dare uno sguardo alla memoria. Ma gli astronauti quando sbarcano su un pianeta pensano sempre che la creazione inizi con loro. E non è così, tanto più se i due astronauti sono anche due lottizzati a loro insaputa. 

Il fatto di essere, entrambi, il meglio che il panorama professionale italiano, esprimesse in materia di management multimediale, non annulla il fatto che prima l’uno, cioè Campo Dall’Orto, sia stato scelto dal premier del tempo, Matteo Renzi, per presunzione di affinità e complicità, tanto è vero che quando vengono meno queste sensazioni di affinità e complicità, lo stesso premier non si fa un problema di cacciare chi aveva impalmato; mentre il secondo, cioè lo stesso Verdelli, è frutto della volontà del direttore generale di talento lottizzato, dunque inevitabilmente anch’esso con questo marchio sulla fronte. Per quanto a sua insaputa, visto che non conosceva né il dg che lo sceglie, né il premier che sceglie il dg. Il pluralismo delle testate e delle reti in Rai è sempre inversamente proporzionale alla libertà dei singoli giornalisti o programmisti.

Ma qualcosa doveva aver percepito anche lo stesso astronauta inconsapevole Verdelli se, appena viene contattato da Campo dall’Orto, gli chiede di “verificare” con il comandante in causa di entrambi- il giovin signore di Palazzo Chigi – il suo gradimento: Renzi sa che mi vuoi con te? Chiede Verdelli al suo mentore appena riceve la proposta di collaborazione, e l’altro risponde subito “non è necessario”. Ma poi sottopone la sua scelta al giudizio di Dio, e informa Verdelli che anche il capo ha dato il suo benestare. 

Come diceva Franceschiello ai suoi sudditi che chiedevano un obolo per un nuovo figlio, rimanendo sul vago se la moglie fosse o meno gravida,“nessuna donna è un poco incinta: o lo è o non lo è”.

E Verdelli lo fu. 

Chiarito che sulle sponde del lago Tanganica non c’erano due bianchi e un mare di indigeni, ma molti mulatti di intensità diversa, entriamo nel merito. 

Il vero merito del libro non è tanto il famoso piano di riorganizzazione delle news, attorno a cui ballano i più stravaganti personaggi, quanto proprio il ballo che si scatena. Verdelli in questo è uno straordinario cronista, che certamente con una visione di parte, inevitabilmente la sua, riesce comunque a rendere con cristallina vitalità caratteri, istinti, bassezze che si alternano in quel fatidico settimo piano di Viale Mazzini.

Il consiglio di amministrazione è un circolo Pickwick di bizzarri personaggi che con pittoresche espressioni cercano di segnalarsi al mondo dei vivi. Da leggere il siparietto con Arturo Diaconale, Sciascia non avrebbe potuto descrivere meglio il gioco delle fumisterie siciliane. La presidente appare come la machiavellica Mandragola, sempre tesa ad accaparrarsi spazi indebiti e ruoli inadeguati, i dirigenti che passano nella stanza dell’astronauta compongono una vera comunità terapeutica, dove ognuno non dice mai quello che pensa e solitamente pensa sempre quello che non potrà mai dire. Ovviamente il clou è la relazione con il capo stregone del villaggio Tanganica, il segretario del sindacato dei giornalisti, allora ed ora, Vittorio Di Trapani, descritto come un Buddha che procede per enigmatiche ma inesorabili sentenze, tutte negative. 

Anche in questo caso il nostro esploratore avrebbe dovuto, oltre che documentarsi sulle televisioni di tutto il mondo, dare un occhio alla storia e alla composizione sociale dei giornalisti della Rai.

Antonio Campo Dall’Orto con Matteo Renzi

L’Usigrai, anche qui non parlo per sentito dire, non è stata sempre e solo una corporazione incastonata nel potere aziendale.

Nasce e si afferma, grazie ad una straordinaria intuizione che Giuseppe Giulietti riesce a condividere con centinaia di giovani colleghi, a metà degli anni Ottanta, che vede nel giornalista massa, il redattore delle nascenti sedi regionali, contrapposti ai più romanizzati giornalisti delle testate centrali, la vera base sociale di un vero sindacato sganciato dalle indulgenze della politica. 

Non possiamo dimenticare che nel decennio dal 1985 al 1995, gli anni dell’impero politico e televisivo di Berlusconi, proprio l’Usigrai fu una delle poche dighe rispetto al dilagare della subalternità della Rai al dominio del partito azienda Fininvest. Quest’aura ancora oggi porta quel sindacato ad essere, realmente uno strumento di separatezza della vita e delle carriere di centinaia di giornalisti dalle alchimie parlamentari. Basta vedere i dati sull’accesso nelle redazioni, e sarebbe bello chiedere a Verdelli oggi a Repubblica, di confrontarli con quelli del suo attuale giornale.

In Rai da molti anni gli accessi sono stati sottoposti, parzialmente certo, ma per un numero consistente di giovani aspiranti giornalisti, al manuale Cencelli. I bacini dei precari si stanno asciugando, le scuole di giornalismo hanno accesso diretto, persino i concorsi, benché frenati poi da mille ostacoli burocratici, sono stati riavviati. Dunque non parliamo di un catafalco corporativo, di una volgare gilda aziendale.

Detto questo, è parimenti innegabile che l’Usigrai, come l’intero senso comune della categoria di cui Verdelli è storicamente un fiore all’occhiello, sia refrattario ad ogni ormai indispensabile “scaravoltamento” dei profili professionali, delle funzioni, delle pratiche e soprattutto della mission complessiva che oggi si propone ad un operatore dell’informazione. 

Figuriamoci, come dettagliatamente descrive Verdelli, cosa abbia significato ai loro occhi perdere un’edizione di tg, che fu conquistata a caro prezzo, negli anni Novanta, quando bisognava dare forza e spina dorsale ad un servizio pubblico in crisi di protagonismo sul mercato. O, ancora di più, trovarsi a dover riclassificare le stesse funzioni di un giornalista e le sue pratiche professionali nella transizione al digitale, che è un’innovazione di processo prima che di prodotto. 

Chi scrive da qualche decennio sostiene queste tesi, e l’intero progetto di Rainews24 era proprio basato sull’idea di una matrice trasversale alle testate che assumesse la rete come standard e fonte e non solo come banale vetrina di promozione. E soprattutto sulla filosofia di una logica di post produzione, che ponesse la newsroom come approdo per l’impaginazione del flusso produttivo delle redazioni verticali che dovevano essere riallineate ad una logica di targetizzazione.

Non voglio vendere i miei tappeti, ma credo sia utile ricordare che proprio nel 1999, or sono vent’anni, fu siglato proprio in Rai, a Rainews24, il primo accordo in deroga al contratto nazionale Fnsi, per l’operatore unico in redazione, che oltre a comporre i testi e i servizi, montasse e mettesse in onda i servizi. Naturalmente il fuoco di fila anche allora fu ad alzo zero, con esattamente le stesse conseguenze che Verdelli ha dovuto sperimentare vent’anni dopo. 

Ma se, forse, avesse avuto più tempo tempo per valutare l’intera esperienza dell’informazione Rai, probabilmente avrebbe evitato di declinare il suo credo innovativo solo in una ristretta ed esclusiva conventicola di “ragazzi e ragazze”, per quanto altamente selezionati, chiusi in una stanza ai piedi di un cactus.

Non dico che avrebbe vinto, ma forse avrebbe reso più complicato alla Mandragola e al circolo Pickwick di beffarsi di un lavoro di pregio e originalità di cui il servizio pubblico ha drammaticamente bisogno. In questo non credo che si possa addossare all’orientalismo dei riti romani, come pure si legge nel libro, la responsabilità di queste ipersensibilità aziendali. 

Carlo Verdelli

Lo dico soprattutto a chi poi, per astuzia della storia, è diventato direttore della redazione più romana d’Italia, quale è appunto quella di Repubblica. Non mi pare che sia Roma che non perdona, come recita il titolo del libro. E non mi sembra nemmeno , come recita la seconda parte dello stesso titolo, che solo ora la politica si sia ripresa la Rai.

Certo che con Campo Dall’Orto e i suoi “ragazzi e ragazze” il clima era più arioso e stimolante, e la distanza dalle greppie di Montecitorio era maggiore di oggi, che i collari sono enormemente più corti. 

Ma collari, più elastici e decorativi, erano anche quelli che portarono lo stesso Campo Dall’Orto e il solito sbigottito Verdelli, al casino del Bel Respiro dove incontrarono l’uomo che fa scrivere a Verdelli, con grande limpido e autonomo sarcasmo: “mai visto un essere umano così felice di essere se stesso”. È un abbronzatissimo Renzi – “prendo il sole in questo cortiletto protetto da tutti”, spiega il soddisfattissimo premier senza che nessuno ne avesse curiosità – li accompagna a visitare la residenza cerimoniale di Villa Pamphili. In quell’incontro Renzi prova a misurare, ma già sembra deluso, la complicità possibile con i due astronauti. Mentre parlavo dei progetti sull’informazione, scrive Verdelli, Renzi mi ricorda che il mio filetto si stava raffreddando. Con il filetto si stava raffreddando ben altro. E infatti poco dopo, è sempre Verdelli a ricordarlo, la cavalleria toscana, guidata dal sergente Garcia del momento, tale Michele Anzaldi, da Palermo, parte all’attacco degli ex pupilli del capo inviati alla Rai. Ma perché? Non si saprà mai.

Fra le mille cabalistiche coincidenze la storia si chiude con uno sgarro che viene proprio dal gruppo editoriale che poi accoglierà lo stesso Verdelli. È infatti l’Espresso che raccoglie da una manina del settimo piano la secretatissima bozza del piano di riorganizzazione delle testate, che non avevano ancora letto neppure al circolo Pickwick. Si parla di un sola newsroom, di differenziare le testate per target, di ridurre le edizioni, di un tg a Milano e avere una potente emissione unitaria on line. È davvero troppo. Il cactus viene tolto dalla stanza di Verdelli e la luce si spegne. Su tutta la scena.

Dr. Verdelli, I presume ultima modifica: 2019-03-11T12:55:33+01:00 da MICHELE MEZZA
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