Basta alberghi a Venezia! è lo slogan proposto ormai un paio di anni fa da associazioni e cittadini per denunciare con forza la necessità, urgente, di arrestare questo aspetto, fra gli altri, della deriva turistica della città. Un grido di dolore rimasto purtroppo inascoltato, se pensiamo, ad esempio, alla nuova piattaforma realizzata dall’amministrazione comunale per mettere sul mercato aree e immobili di proprietà pubblica, tanto in città storica quanto in terraferma. Una vetrina in cui per ciascun bene sono presentate le caratteristiche, il valore e le possibili destinazioni d’uso, che, nemmeno a dirlo, spesso sono ricettivo-alberghiere. Oltre al danno la beffa se pensiamo che il nome attribuito al sito, e all’ente che gli sottende, “Agenzia Sviluppo Venezia”, dimostra ancora una volta l’assoluta mancanza di visione e di politiche, oltre che di fantasia, che vadano in una direzione differente rispetto al turismo quando si pensa al futuro e allo sviluppo, appunto, della città. E intanto la trasformazione di palazzi storici in alberghi continua: è di oggi la notizia, apparsa su La Nuova di Venezia e Mestre, dell’ennesimo cambio di destinazione d’uso questa volta per Palazzo Querini Dubois di proprietà delle Poste italiane.
Un turismo dunque che sempre di più tutto travolge. Un blob che si sta manifestando, a chi vuole vederla, in tutta la sua pericolosità, che stravolge anche il valore delle migliori istituzioni e iniziative socio-culturali e che, in ultima analisi, sta trasformando Venezia in un museo a cielo aperto, nella peggior accezione che questo termine significa. Possiamo quindi immaginare un monito “basta trasformare Venezia in un museo!” per arrivare a dire “basta musei a Venezia!”?
Ma chi sta lavorando per immaginare nuovi percorsi?
Venezia negli ultimi tempi si è caratterizzata per una buona vitalità della società civile. Tra associazioni di più lunga tradizione e nuovi gruppi, più o meno informali, la città ha sperimentato in vario modo e su vari obiettivi una capacità di mobilitazione e partecipazione alta e in alcuni casi anche una progettualità innovativa. A questa va aggiunta la presenza nelle istituzioni veneziane, regionali e nazionali di alcune forze politiche, più o meno recenti, che contribuiscono ad alimentare la ricerca di idee e di percorsi diversi a cui affiancare strumenti per renderli concreti. Tutto questo lavorio dipende probabilmente dal fatto che i veneziani sentono l’urgenza di delineare un futuro il più possibile condiviso, rispetto al quale attivare le ultime energie disponibili.
È una cosa che accade ciclicamente in tutte le comunità ma a Venezia si tratta ormai di una corsa contro il tempo. Siamo in una fase acuta perché oggettivamente la città sta affrontando una crisi conclamata e profonda. Non è riuscita a (ri)trovare una dimensione metropolitana che facesse della città storica un capitolo importante di un racconto più ampio, ma allo stesso tempo da sola non riesce ad affermare una capacità di interpretare la contemporaneità in termini innovativi e di crescita economica e sociale. E così, la paura che pervade molti veneziani di essere destinati a scomparire, quasi una sindrome da “ultimo dei Mohicani”, è altissima.
Come misurare dunque il tasso di “estinzione”? Il parametro più ovvio è quello demografico e il trend parla in modo chiaramente drammatico: negli ultimi quarant’anni la città storica ha praticamente dimezzato i residenti, passando da quasi centomila a meno di 53mila. E ogni nuova rilevazione presenta dati da bollettino di guerra. Certo i numeri vanno letti con attenzione. Tuttavia anche non “dimenticandosi” della terraferma e tenendo conto degli abitanti dell’estuario, dati entrambi importanti quando si tratta di immaginare un futuro per la città, il decorso nel medesimo arco temporale è quasi il medesimo, con la Venezia insulare che ha anch’essa ridotto del cinquanta per cento i suoi abitanti e il resto del territorio comunale che segna una flessione di circa il quindici per cento.
Andrebbero tenuti in considerazione inoltre i residenti temporanei, a partire dagli studenti universitari (calcolo complesso e spesso impossibile considerata la scarsa regolarità dei contratti di locazione), ma anche in questo caso i numeri sono senza dubbio in calo: anche gli studenti sono stati sfrattati dai turisti a cui, sfruttando le note e numerose piattaforme, è diventato più redditizio affittare. La parabola di vita di questi circa trentamila giovani che frequentano quotidianamente la città, in parte ci abitano, salvo abbandonarla al conseguimento della laurea, è un segnale chiarissimo dell’incapacità di attrarre nuovi abitanti, nuova linfa. Un dato inequivocabile e gravissimo anche perché chi frequenta questo mondo spesso si sente dire:
Mi piacerebbe molto restare a Venezia ma manca il lavoro, un ambiente creativo e stimolante, per non parlare dei costi da affrontare per viverci, sempre a patto di riuscire a trovare una casa…

Tutto considerato dunque i residenti nella città storica (e non solo) stanno calando, inesorabilmente, nonostante alcune dichiarazioni di importanti membri dell’attuale amministrazione che stridono con ogni regola matematica e logica. Insomma, possiamo stare a discutere di qualche migliaio di persone alla ricerca del numero che più ci convince per conteggiare i veneziani, ma di certo gli abitanti della città, vecchi e giovani, da più generazioni o arrivati da pochi mesi, diminuiscono. Una decrescita infelicissima, nonostante i tentativi di gettare fumo fucsia negli occhi proponendo calcoli basati sui consumi idrici che indicherebbero la presenza nella città storica di circa centomila “abitanti equivalenti”.
Crediamo si possa dire dunque, senza tema di smentite, che l’attuale amministrazione ha sposato appieno il sistema produttivo che ha alla sua base il turismo con tutto ciò che comporta. La Giunta Brugnaro non ha messo in campo politiche per immaginare nuove economie, né tanto meno salvaguardare residenza, servizi, lavoro e quindi almeno per i prossimi dodici mesi non ci possiamo aspettare interventi per contrastare questa deriva. Interventi, peraltro, che avrebbero bisogno di anni per poter poi dispiegare i propri effetti.
Come reagiscono i veneziani a tutto ciò? Qui non vogliamo affrontare il tema da un punto di vista politico e di organizzazione del consenso in vista delle prossime elezioni comunali. Un aspetto invece che, alla luce di tutte queste considerazioni e a nostro parere, merita di essere approfondito, e su cui Lucio Rubini ha già scritto recentemente (A Pescheria Rialto un museo per una Venezia senza cittadinanza), riguarda la gestazione di un nuovo museo cittadino, quello di Rialto.
Il progetto ha ricevuto un forte appoggio in città eppure va proprio nella direzione della museificazione di un altro pezzo di Venezia, la tanto amata, quanto ormai poco frequentata dai veneziani, pescheria. Perché, diciamocelo, questa rischia di diventare una sorta di bistrot del futuro museo, un classico esempio di commercio e cultura che si alimentano a vicenda, un’idea di rigenerazione urbana si potrebbe perfino arrivare a dire. Ma rigenerare un’area desertificata a causa delle funzioni turistiche dominanti, inserendo un museo e un bistrot, significa consolidare quelle stesse dinamiche che si vogliono contrastare.
E ancora: noi abbiamo già un museo della città, dotato di una collezione permanente di tutto rispetto, localizzato nel salotto cittadino, ovvero il museo Correr. Che senso ha aprire un altro museo cittadino e soprattutto a Rialto dove certo non c’è bisogno di incentivare i flussi turistici? Non potrebbe aver maggior valore lavorare sul Correr? Sui servizi culturali ad esso collegati? Su come oggi è organizzato il percorso museale? Sulle attività delle mostre temporanee? Sullo stato di salute della sua (nostra) biblioteca? E più in generale sull’offerta culturale cittadina, magari ipotizzando eventuali nuove attività espositive in zone meno congestionate? Ricordiamoci che la delega alla Cultura è in mano allo stesso Brugnaro e ci pare non si dibatta abbastanza sulle attività culturali da questi organizzate in città storica.
Ecco quindi che il progetto identitario museale a Rialto può aver successo perché sposa le dinamiche economiche dominanti in città: per salvare il mercato dobbiamo museificarlo. Questa, in maniera molto tranchant, ci sembra sia la soluzione che viene proposta. Siamo ben lontani quindi dai molti momenti di aggregazione, riflessione e protesta che in questi ultimi anni si sono risvegliati in città.
Chi scrive non ha partecipato alla presentazione del progetto lo scorso 1° febbraio in un affollatissimo convegno. Ma il tono degli articoli è molto esplicito. Vera Mantengoli su La Nuova di Venezia e Mestre ha così raccontato l’atmosfera che si respirava:
Un pubblico di cittadini compatti che al richiamo di una via di salvezza per Venezia si è presentato senza indugi e ha ascoltato in religioso silenzio… Si sente entusiasmo e fermento nell’aria, voglia di partecipare e di prendersi cura delle città.
Ma la cosa più stravagante è che i promotori premono per un ruolo forte del Comune.
Noi vorremo che Rialto restasse sotto il controllo del Comune,
ha dichiarato Gabriella Giarretta, presidente del Comitato Rialto Novo.
Ecco quindi che si propone perfino di affidarlo all’ente pubblico, rinunciando a quel protagonismo e a quella possibile innovazione sociale che invece contraddistinguono le progettualità dal basso più interessanti che si possono trovare in città. Progettualità che sanno benissimo quanto il ruolo del pubblico sia fondamentale nel facilitare alcuni processi, ma che certo non pensano a demandare al pubblico il “controllo” delle loro azioni.
Come ha scritto Rubini:
Dove sta l’intelligenza collettiva [in questo progetto]? Semplicemente non esiste. Non rischia, non ibrida, non scommette … circostanzia il refrain sulla morte della città, si accontenta di trovare un luogo per la rappresentazione ideale di un desiderio di città.
Veramente il civismo veneziano è incapace di fare di Venezia un luogo dove sperimentare percorsi di produzione e scambi che non siano vincolati e asserviti all’industria turistica? Veramente non siamo in grado di attivarci, qui sì anche politicamente, per invertire la rotta dello spopolamento della città? Perché la soluzione per la vera sopravvivenza del centenario mercato risiede nel ritorno dei suoi consumatori, ossia chi abita a Venezia, non nel trasformarlo in un museo.
Nell’immagine d’apertura il Palazzo Querini Dubois

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