Quando si parla di migrazioni, che si pensi a popolazioni in arrivo o a popolazioni in partenza, v’è sempre nel dibattito pubblico un qual certo senso di “emergenza”. L’Italia, come invece ormai la storiografia ha ampiamente sedimentato, si configura piuttosto come un crocevia di popoli, come un territorio, cioè, che per la sua stessa conformazione geografica si presta a essere terra di passaggio di persone in movimento.
Ciò, evidentemente, non significa negare che, in alcuni momenti della nostra storia, non sia sentita come più urgente la necessità di riflettere su che cosa i dati di queste migrazioni ci stiano a indicare.
Se le migrazioni sono un fenomeno che risale a ben prima del Novecento, è però solo da allora che la mole di tali movimenti ha trasformato degli spostamenti necessari alla sopravvivenza o alle attività umane (pensiamo ai commerci o alla pastorizia) in dei fenomeni di massa. Fenomeni che hanno cambiato direzione, origine, ragioni, ma in cui ancora oggi ci troviamo immersi e che, in visione prospettica, saranno decisivi per capire che mondo lasceremo ai nostri figli e nipoti.
Tra apologeti della mobilità globale – nelle duplici declinazioni “no-borders” e “finanza rampante” – e rigurgiti xenofobi e sovranisti, gli ultimi vent’anni hanno preparato un terreno assai fertile per la discussione pubblica sul tema mobilità, ma hanno fatto emergere anche il sostrato su cui studi accurati – di storici, politologi, sociologi e persino di analisi letteraria e cinematografica – si sono sviluppati e radicati in una prospettiva sempre più interdisciplinare, che punta a chiarire i dati senza disperdere la carica emotiva e umana di qualsiasi processo migratorio.
È questo il caso del recentissimo monografico Viaggio tra gli italiani all’estero. Racconto di un paese altrove (Il Mulino, n. 6/2018), che descrive l’altra faccia delle migrazioni italiane: quel pulviscolo sempre più denso di persone che lasciano il nostro Paese e che sono arrivate a essere oggi più di quante non ve ne entrino. Un volume interessante per la molteplicità di approcci e di linguaggi che propone. Anzitutto perché cerca di scardinare le doppie false retoriche dell’invasione dall’estero e della “fuga dei cervelli” e lo fa presentando chiaramente i dati di questi flussi nei saggi introduttivi di alcuni dei nomi di maggior rilievo della storiografia migrazionista del nostro Paese – da Enrico Pugliese a Maddalena Tirabassi, da Michele Colucci a Corrado Bonifazi fino a Salvatore Strozza ed Enrico Tucci.

Una pluralità di temi che mostrano continuità e discontinuità rispetto alle grandi migrazioni degli italiani dell’inizio e della metà del Novecento, di pari passo con l’aumentare delle opportunità di accesso all’informazione e alla conoscenza e con la diminuzione del costo degli spostamenti.
In secondo luogo, il volume è meritorio perché fa emergere, risultato già noto agli studiosi ma casuale nella genesi del volume, una serie di tratti comuni nelle esperienze migratorie – per mille versi diversissime – di chi è partito dall’Italia a volte in cerca di fortuna, a volte per disperazione, a volte in cerca di crescita personale, di nuove opportunità, a volte per amore, a volte per caso: raccoglie cioè quaranta testimonianze, testi di poche pagine in cui altrettanti “italiani all’estero” hanno cercato di condensare le loro esperienze, emozioni, sensazioni del vivere altrove.
Quel che ne risulta è un variegato affresco in cui tutto si svolge sul perenne interrogarsi del rapporto tra vicinanza e distanza; tra opportunità e costo; tra avanti e indietro. Una collezione di vite che, chissà, avrebbe meritato un’analisi non solo numerica ma psicologica: si fa sentire l’assenza di un saggio di natura psicologica che traesse un bilancio di queste riflessioni – sospese tra amarezza ed entusiasmo, consapevolezza dei limiti e delle prospettive – che sarebbe stato forse un giusto complemento per un volume che vuole enfatizzare il lato umano dell’esperienza migratoria.
Peraltro, un’esperienza che mostra grandissime similitudini indipendentemente dal raggio di distanza percorso: lo sviluppo delle tecnologie delle comunicazioni ha reso tutto il globo più vicino, ma non sostituisce la vicinanza fisica indipendentemente che tu sia emigrato in Veneto dalla Calabria, in Uruguay dalla Liguria o in Inghilterra dalla Lombardia.
Resta cioè un non detto – o speriamo lo spunto per un prossimo monografico – ossia quello della permanente, e in nuova crescita, migrazione interna degli italiani. Un’esperienza che, al netto delle minori (ma non sempre) difficoltà linguistiche, ha molte più implicazioni emotive analoghe a quelle delle migrazioni di lungo raggio di quanto non si possa immaginare. Qui invece le voci chiamate a narrare la propria storia sono voci da un altrove. Un altrove molto europeo, ma non solo, che spazia dal Sudafrica agli Stati Uniti fino al Giappone per far tappa in quegli stati dell’ex blocco sovietico sempre più appetibili mete migratorie ancora spesso inserite dal sentire comune nel novero di scelte di vita “strampalate”.
Terzo aspetto interessante di questo densissimo volume è l’inquadramento di queste storie all’interno di cornici regionali, a spiegare la complessità delle comunità italiane all’estero, fatte, come si diceva, non tutte di cervelli in fuga o di “classe creativa” o manageriale ma anche di moltissima forza lavoro dura e pura – a volte fordista a volte motore di quell’immenso villaggio turistico globale che sta diventando il nostro pianeta (si badi bene, detto ciò qui senza valutazione di merito).
Ultimo punto, lo sforzo di fare una riflessione sulle narrazioni e le auto-rappresentazioni di questo popolo in movimento: dalle lettere degli emigranti dell’inizio del secolo al web 2.0, sono cambiati linguaggi, metodi e quantità del comunicare ma, sembra, non l’urgenza di farlo e a volte neanche le finalità. Sentirsi più vicini a chi si è lasciato a casa o a chi sta vivendo un’esperienza analoga, mostrare entusiasmi e delusioni, dare testimonianza della propria presenza. Levare delle voci. Spesso, però, senza avere la pretesa di attribuire valore universale alla propria percezione dei fenomeni di cui si è protagonisti.
Se da tutte queste storie emerge in parte un generale senso di delusione per un Paese che non si è mostrato all’altezza delle aspettative, dall’altro vi è l’altrettanto presente certezza che un mondo statico non sarebbe interessante. Il volume rimane così, dunque, senza uno statement valoriale preciso, come forse è necessario e corretto che sia per uno strumento editoriale a metà tra accademia e società.

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