Donald Trump ospiterà venerdì nella sua residenza di Mar-a-Lago a West Palm Beach in Florida i leader di Bahamas, Repubblica Domenicana, Haiti, Giamaica e Santa Lucia, con i quali vuole parlare di pace e democrazia in Venezuela. La riunione sarà anche occasione per prendere in esame le opportunità d’investimenti in campo energetico, tema molto sensibile per i suoi ospiti, i cui paesi hanno beneficiato per anni dei sussidi petroliferi concessi dal governo chavista attraverso Petrocaribe, recentemente ridotti al lumicino per la crisi economica venezuelana, la battuta d’arresto delle estrazioni e la diminuzione delle esportazioni per il boicottaggio, al quale la stessa India, paese importatore, si è recentemente inchinata.
Un dialogo che è reso possibile anche dal recente passaggio di Haiti dall’alleanza col chavismo all’appoggio di Guaidó, dove ora figura allineata a Bahamas e Repubblica Domenicana, mentre Santa Lucia e Giamaica considerano la strada del dialogo ancora aperta. Un’opzione definitivamente scaduta per l’opposizione venezuelana, che sta alla base della situazione di stallo che rende pericoloso l’interminabile braccio di ferro in corso.
L’incontro di venerdì prossimo fa seguito alla calorosa accoglienza riservata ieri al brasiliano Jair Bolsonaro alla Casa Bianca, durante il quale i due presidenti di estrema destra hanno deciso di coordinare i loro sforzi contro la presenza di regimi “socialisti”. In primo luogo contro il Venezuela, dove ogni soluzione rimane aperta, non esclusa la militare. Ma che si rivolge anche contro Cuba e il Nicaragua, e che per Trump è l’occasione per contrastare “la politica economica predatoria” portata avanti dalla Cina in Sud America.
C’è da dire che un’eventuale caduta del regime di Maduro per Pechino significherebbe un danno enorme per gli investimenti fatti nel paese, stimati all’incirca a sessantamila milioni di dollari, quasi tre volte quelli operati nello stesso periodo dalla Russia. Interventi che, a cominciare dai primi anni 2000, hanno permesso alla Cina di vendere tecnologia e armi al paese sudamericano, in cambio di un flusso energetico consistente necessario alla sua economia in espansione. E ha consentito a Hugo Chávez di ridurre la propria dipendenza dalle esportazioni verso gli Stati Uniti, sostituendola nei fatti con quella dei nuovi protettori russi e cinesi.
Se i benefici a breve sono stati inconfutabili e hanno attratto in questo miraggio anche altri paesi latinoamericani, sul lungo periodo tale rapporto evidenzia una sostanziale dipendenza, essendo gli investimenti cinesi basati sull’estrazione di risorse naturali e sul commercio di prodotti ad alto valore aggiunto. Difficile, poi, che il governo cinese scelga di cambiare politica di sua iniziativa, quando metà della sua popolazione fa ormai parte della classe media e il prossimo anno sarà l’ottanta per cento degli abitanti.
La conseguenza prevedibile è un aumento della domanda di consumi e quindi di risorse energetiche, e la volontà di perpetuare nei prossimi decenni le basi su cui poggia lo scambio, che difficilmente darà qualche chance a paesi estrattori come il Venezuela di poter produrre beni con un valore più alto. Insomma una trappola, alla quale le sinistre latinoamericane farebbero bene a prestare la dovuta attenzione.

Il grande confronto-scontro con il gigante cinese può essere una delle chiavi di lettura dell’interesse che anima Donald Trump, il quale ha fin dall’inizio coordinato gli sforzi per mettere fine al governo di Nicolás Maduro, e spiega anche l’importanza di un’alleanza con Jair Bolsonaro, già a lui affine sul piano ideologico.
Così, accanto alla condanna dei regimi “socialisti”, si è avanzata da parte del presidente americano l’opportunità di un rapporto che coinvolga maggiormente il Brasile con la Nato, di cui potrebbe diventare alleato.
Se tale rapporto dovesse essere condiviso dagli alleati, aprirebbe al Brasile un accesso preferenziale all’acquisto di tecnologia militare statunitense, e un conseguente suo coinvolgimento nello scacchiere latinoamericano al fianco degli Stati Uniti, che potrebbero sostenerlo nelle sue ambizioni di dominio nell’area.
Grande attenzione è stata data nell’incontro anche alla questione dello sviluppo, per il quale Trump ha auspicato per il gigante sudamericano un rapporto più profondo con l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, dichiarando di voler sostenere quella che è l’ottava potenza economica mondiale nei suoi sforzi di intessere relazioni con le economie più avanzate del pianeta.
Il tutto alla luce della grande sintonia riscontrata dai due presidenti, le cui linee politiche sono ampiamente coincidenti sulla salvaguardia delle libertà, i valori della famiglia tradizionale, l’opposizione all’identità di genere. Tema, quest’ultimo, che è da sempre uno dei cavalli di battaglia d’entrambi e che li rende persino simili per i commenti antifemministi e le offese contro la comunità omosessuale che li contraddistinguono. Oltre all’impulsività del carattere con cui spesso si esprimono, altro elemento che li rende reciprocamente simpatici, tanto che lo stesso Trump, la cui politica estera poggia molto sulle relazioni personali, ha dichiarato che mai Stati Uniti e Brasile sono stati così vicini.
Era quindi fatale che la discussione vertesse sul futuro del Venezuela, dove Bolsonaro, per rendere ancor più chiaro il messaggio, ha rivelato di aver parlato di consentire all’esercito americano di schierarsi in Brasile, a ridosso della frontiera con il martoriato vicino.
Non si è fatta attendere naturalmente la reazione di Maduro che ha accusato entrambi di fare “apologia della guerra”, giunta dopo le loro ammissioni di voler aumentare la pressione per farlo cadere in flagrante violazione della Carta delle Nazioni Unite.
A poca distanza e solo qualche ora fa Andrés Manuel López Obrador, fautore della non ingerenza nella politica degli altri paesi e del dialogo in Venezuela, ha ricevuto Jared Kushner, potente genero di Trump. Ufficialmente per parlare solo di emigrazione e commercio. Possibile?

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