Negli ultimi trent’anni il numero di maiali uccisi per il consumo di carne è aumentato esponenzialmente. Oggi in Spagna si uccidono cinquanta milioni di esemplari all’anno. Non molto tempo fa, uccidere un maiale era un rito. I preparativi cominciavano alcuni giorni prima dell’uccisione. Il giorno convenuto, si ricevevano i familiari e i vicini. La mattina presto, le alte grida del maiale, come la sirena di una nave, indicavano che stava iniziando un nuovo ciclo. Per un altro giorno o due, si lavorava insieme l’animale di cui ci si era presi cura per un anno. Era il suo turno, e avrebbe alimentato tutta la famiglia per i prossimi dodici mesi.
Non amo le corse automobilistiche, ma mi sono informato. Nel 1950, quando una macchina rientrava ai box per cambiare le ruote, ci voleva un minuto per completare l’operazione. I meccanici ne approfittavano per pulire il parabrezza, dare da bere al pilota e commentare l’andamento della gara. Ora, la stessa operazione non raggiunge nemmeno i due secondi. Non c’è nemmeno il tempo per scambiare un’occhiata.
Qualcosa di simile è successo all’industria della carne, e in particolare all’industria delle carni suine. Una corsa folle per produrre il maggior numero di maiali al minuto. Come se fossero Ferrari, le scrofe più prolifiche vengono selezionate per aumentare la produzione. Così, negli ultimi trent’anni si è passati da scrofe con la capacità di dare alla luce diciotto maialini l’anno con due parti, a scrofe con una produttività di quasi trenta. Per indicare l’efficacia di un’azienda agricola, come la classificazione del giro più veloce, viene utilizzato il parametro dei “giorni non produttivi per ciclo”, che mira a ridurre al massimo i giorni in cui la scrofa non è né gravida né in allattamento. In termini economici, i giorni in cui le femmine generano spese senza generare reddito. Negli ultimi quindici anni si è riusciti a ridurli di 2,72 giorni all’anno, che è come ridurre di un secondo il tempo nei cento metri.
Ma questa competizione si rende più evidente nell’atto più sanguinoso della produzione: l’uccisione e la lavorazione. Se negli anni ’90 si era già raggiunta la velocità astronomica di macellazione di sei suini al minuto, i nuovi impianti con macchinari robotizzati, combinati con le esigenze imposte dalle persone che lavorano in questa filiera, consentono una velocità di ventidue suini al minuto. Un maiale ogni tre secondi.
Il più grande macello d’Europa
Il prossimo impianto con queste caratteristiche sarà inaugurato tra poco a Binéfar [in provincia di Huesca, in Aragona ndr]. Come si può leggere sul sito web, si tratta del più grande macello d’Europa pensato per la macellazione e la lavorazione di 32.000 maiali al giorno: uno ogni tre secondi. Il suo obiettivo è, letteralmente: “uccidere sette milioni di capi all’anno”.

(Foto dal sito del Comune di Binéfar)
Molte voci si sono alzate contro il progetto, ma non è stato possibile fermarlo. Sebbene a Binéfar e nella regione di La Litera non ci siano problemi di disoccupazione, il fatto che il progetto potesse generare 1.600 posti di lavoro ne ha facilitato l’approvazione da parte delle amministrazioni. Non sembra preoccupare molto che il progetto sia guidato dal gruppo italiano Pini, che ha precedenti criminali molto pesanti per imprese simili di macelli in Italia, Polonia e Ungheria, dove le denunce sono innumerevoli. Il quotidiano Público, in un approfondito reportage, ha raccolto le testimonianze di ex dipendenti del gruppo.
Lo stesso Piero Pini, il presidente del gruppo, ci chiamava schiavi bianchi: aveva ragione, eravamo schiavi. Non c’era tempo per distrarsi nella catena. La carne che arrivava sul nastro non si fermava mai. Quando arrivavano i visitatori, riducevano la velocità del nastro a duecento maiali all’ora, ma in condizioni normali andava molto più veloce.
A volte lavoriamo fino all’una di notte e dobbiamo tornare sabato alle quattro del mattino. Se non vieni, sei licenziato, quindi lavori intimidito dalle continue minacce di perdere il lavoro.
E sembra che, come in altri macelli del paese, Pini e il suo macello di Binéfar manterranno questo tipo di sistema schiavista, cominciando dall’escamotage di non impiegare direttamente i propri lavoratori ma facendolo attraverso quelle che sono state denunciate come ‘false cooperative’.
Se l’amministrazione dell’azienda non è stata contestata per il tipo di impiego che promuove, le faranno il solletico le preoccupazioni dal punto di vista ambientale che solleva un macello di questo tipo, e meno ancora la toccheranno le rivendicazioni dei gruppi animalisti.
In ogni caso, c’è un altro fattore che bisogna considerare.

La bolla dei maiali
L’Aragona produce un decimo dell’intera industria suina spagnola, che negli ultimi anni non ha smesso di espandersi e ha raggiunto nel 2017 un fatturato totale di quindici miliardi di euro. La Spagna è la terza potenza commerciale mondiale di prodotti suini e la quarta nella produzione finale di tonnellate di carne, dietro a Cina, Stati Uniti e Germania. In totale, ogni anno sono macellati circa cinquanta milioni di suini, che producono 4,25 milioni di tonnellate di carne, di cui il 55 per cento è esportato nell’Unione Europea, in Cina e in altri paesi asiatici.
Da questa primavera il signor Piero Pini, perché i suoi investimenti diano i loro frutti, vorrà che s’ingrassino sette milioni di maiali in più in Spagna, per ucciderli nel suo macello, per lavorarli e distribuirli freschi o congelati in tutto il mondo, specialmente nei mercati asiatici. E chi fornirà questi sette milioni di maiali macellati in più?
I lavoratori giornalieri, per lo più migranti, occupati senza sosta nei maxi macelli che vediamo diffondersi come una piaga in tutto il paese, con scarsa regolamentazione e scarso controllo, e che sono responsabili dell’inquinamento dei terreni a causa delle deiezioni animali, delle falde acquifere a causa dei nitrati, o della generazione di resistenze agli antibiotici a causa del loro abuso nell’ingrasso in queste forme di allevamento industriale.
Quindi non è sufficiente alzare la voce contro le amministrazioni; dobbiamo interrogarci, come società, sui modelli economici che stiamo permettendo. Personalmente, la mia opinione è di guardare indietro. Andare avanti, tornando a proteggere e valorizzare l’allevamento su piccola scala, quello del maiale nutrito con i resti della fattoria o dei ruminanti che sfruttano i pascoli delle montagne. Piccole aziende agricole che negli ultimi dieci anni, con l’espansione degli allevamenti intensivi, hanno chiuso al ritmo di quattro al giorno.
Articolo pubblicato per gentile concessione di ctxt Revista Contexto.
(versione originale)
Traduzione di Marco Milini

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