E così dopo l’Abruzzo e la Sardegna anche la Basilicata scivola nel carniere del Capitano con la felpa. La sequenza delle vittorie della destra ad egemonia salviniana è, dunque, netta almeno quanto il rosario delle sconfitte del Movimento 5 Stelle e la “rimontina” al secondo posto del Pd di Zingaretti. Niente da aggiungere all’evidenza. Si confermano l’incapacità del M5S di fare risultato negli enti locali e di prendere voti di preferenza, la stagione trionfante della Lega del Capitano, la fine dell’emorragia del Pd che, però, non pare aver ancora recuperato lo slancio per tentare qualcosa di più, il ridimensionamento delle Civiche, che non sembrano rappresentare un’alternativa alla crisi dei partiti.
Quanto potrà durare questo trend è difficile dirlo in una stagione dai cicli brevi, anzi fulminei. Se qualcuno, però, provasse a fare scommesse su un voto europeo ancora col retrogusto basilisco, forse non sbaglierebbe. Ma è una gittata a soli due mesi, dopo di che arriviamo al bordo delle colonne d’Ercole della XVIII legislatura. Può accadere di tutto, anche un cortocircuito traumatico mentre ancora ci trastulliamo tra le mani gli exit poll del voto europeo.
Ci sono un paio di cose, però, che queste elezioni regionali hanno raccontato nel primo scorcio dell’anno. Una prima è la probabile irreversibilità della crisi pentastellata. Non è solo il problema dell’incapacità di misurarsi col voto di preferenza, ben diverso dal voto a lista bloccata basato su un consenso, per così dire, ideologico che prescinde dalle candidature che lo incarnano.
È un’altra cosa: è la curva discendente del partito dematerializzato, privo di insediamento nel corpo sociale, affidato all’afflato emozionale del web.
Da osservare, invece, l’epifenomeno leghista. Si dirà: è cosa diversa, siamo di fronte ad un partito vero, presente sul territorio da ventott’anni e più, con una classe dirigente selezionata attraverso il voto e le esperienze dell’amministrazione locale. Vero ma neanche troppo.

La Lega ha quasi trent’anni di vita, è vero, ma è un partito che storicamente ha avuto un peso che è rimasto tra il cinque e il sette per cento con rare punte più alte. La Lega di oggi è sondata al 34 per cento: è una cosa diversa. Una cosa presa d’assalto dal ceto politico dei transumanti, personale dirigente attratto dal ruolo di governo del partito di Salvini e pronto, dalle regioni padane alla Sicilia, ad abbracciare il credo del nuovo conducator.
C’è un consenso popolare che si allarga, certamente. Ma c’è anche una fetta consistente di migrazioni di ceto da terre politiche anche lontane verso la terra promessa di Salvini. Immigrati, che stanno facendo della Lega un partito pigliatutto, accolti con permesso di soggiorno permanente.
Nel Nord la Lega già c’era. È al Sud, dunque, che le migrazioni di ceto politico diventano imponenti. Le copre – un alibi largo quanto una fedeltà ideologica – il velo sottile di un posizionamento originario a destra, civico o forzitaliota nelle sue varie interpretazioni possibili, ma sempre coltivato nell’idea-forza dello stare dalla parte di chi mena il gioco del governo.
Ora che di fronte a tanta grazia elettorale si presenta un partito che, a differenza di quelli di provenienza, sembra avere più voti che ceto, almeno al Sud, non gli pare vero. Che partito sarà, allora, la Lega del Sud? Ma che domande sono: un partito che comanda e che va anche al governo locale. Del Sud.

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