La micidiale e insana pratica dei parti cesarei è dilagata in Italia in modo pauroso: si è passati in meno di quarant’anni dall’undici per cento di interventi chirurgici del 1980 a più del triplo (34,2 per cento) del 2015, ultimo dato disponibile. Il nostro paese è in questo campo il primatista assoluto dell’Ue. Di più e di peggio, la percentuale dei cesarei è nettamente superiore alla media nazionale nelle strutture private (cliniche, anche convenzionate): si passa dal 31,9 per cento degli ospedali pubblici addirittura al 52,5 per cento nelle case di cura private accreditate (perché in quelle non convenzionate la percentuale sale ancora, in qualche caso sino al 75 per cento). Una variabilità paurosa che, come avviene spesso in sanità, è (come vedremo dalle linee-guida in materia pubblicate dell’Istituto superiore di Sanità) un forte indicatore di inappropriatezza delle pratiche messe in atto nelle sale parto.
Altrettanto inquietante è la forte variabilità che si registra tra le diverse regioni. In Friuli-Venezia Giulia si tocca il minimo del 24 per cento, ma in genere la percentuale è più bassa in tutto il Nord e in Toscana, regione tradizionalmente all’avanguardia nella campagna per un parto consapevole. Per contro il Sud è al fanale di coda, con la punta estrema della Campania (dove i cesarei sono al 62 per cento di tutti i parti) seguita da Calabria e Sicilia. Nel complesso delle regioni meridionali, nonostante i cali in alcune di esse, il cesareo domina con il 42,3 per cento di media, 7,4 punti in più della media nazionale. Come dire che lo squilibrio ai danni delle donne meridionali può essere di sette volte maggiore. Il cesareo è più frequente nelle donne con cittadinanza italiana rispetto alle donne straniere: si ricorre al taglio nel 27,7 per cento dei parti delle straniere contro il 36 per cento dei parti di italiane. Attenzione, ora: l’Organizzazione mondiale della Sanità raccomanda come “indicazione massima” il quindici per cento di cesarei. Ebbene, le più basse percentuali di parti effettuati chirurgicamente si contano in Norvegia e Finlandia: 6,6 per cento.

Che cosa si intende fare per affrontare il nodo del cesareo non necessitato? La questione è posta in questi giorni con una risoluzione proposta in commissione Sanità della Camera da un gruppo di deputati, prima firmataria Gilda Sportiello (M5S), anche se chissà quando verrà posta all’ordine del giorno con una comunicazione della ministra della Salute. Giulia Grillo è chiamata a valutare gli impegni richiesti dal governo, tra i quali una indagine “sulle cause che favoriscono un’elevata propensione all’uso del taglio cesareo nelle case di cura private” e “le iniziative per contrastarne l’eccessivo ricorso”.
L’ultima volta che la questione era stata posta esplicitamente in parlamento risale a poco meno di dieci anni addietro, quando, in risposta ad una interrogazione dei sei deputati radicali eletti nelle liste del Pci, intervenne la sottosegretaria (antiabortista) alla salute Eugenia Roccella ammettendo ma solo di sfuggita, e senza una parola di condanna, il carattere localizzato (ma determinante per alzare la percentuale: ma questo non fu detto) dei picchi maggiori di cesarei: le strutture private, le cliniche.
Disse Roccella che la “variabilità” anche geografica dei dati
è chiaro indice di un comportamento clinico-assistenziale non appropriato, riconducibile ad una molteplicità di fattori indipendenti dalle condizioni di necessità clinica: carenze strutturali e organizzative, aspetti culturali che assimilano il cesareo ad una modalità elettiva di nascita, scarsa competenza del personale sanitario nel gestire la fisiologia, eccetera.

Già, “eccetera”. In questo avverbio (valido dieci anni fa come e più oggi) l’ex sottosegretaria nascondeva una pura e semplice verità solo accennata poco prima: il fattore speculativo, l’interesse economico, cioè la sete di guadagno delle cliniche private, il comportamento poco corretto di una parte dei medici, irrispettoso delle linee-guida della Sanità. E soprattutto non disse una parola su come combattere questo fenomeno indegno di una società civile. Fu allora, dieci anni addietro, che il ministero della Salute aveva elaborato “linee di indirizzo per la promozione e il miglioramento della qualità, sicurezza e appropriatezza degli interventi per il parto”, linee accolte dalla conferenza Stato-Regioni nel lontanissimo 16 dicembre 2010. Ma in quelle linee non c’era traccia di una lotta alla speculazione dei privati, né quelle stesse generiche indicazioni si sono tradotte in alcuna misura e, soprattutto, in alcun effetto come le statistiche purtroppo dimostrano.
Fatto è che sono rimaste, e rimangono, lettera morta le linee guida formulate dall’Istituto superiore di sanità (“Taglio cesareo: una scelta appropriata e consapevole”) che costituiscono una “chiara indicazione al cesareo”. Non sono numerose e vanno non solo conosciute da tutti ma considerate in qualche modo tassative:
la presentazione podalica del feto; la presenza di lesioni primarie da herpes simplex a livello genitale nell’ultimo trimestre di gravidanza; l’infezione da Hiv; la co-infezione da Hiv e Hcv in donne non in terapia; la placenta pervia; una pregressa dell’utero o un precedente cesareo con incisione longitudinale; una gravidanza gemellare monocoriale e monamniotica; il peso stimato superiore ai 4,5 kg nelle donne diabetiche.
Casi rari dunque, cui si aggiungono tre casi “da valutare”. Se:
feto piccolo per epoca gestazionale (ma solo de presenta problemi rilevati agli esami strumentali; uno dei feti è in presentazione podalica nel corso di una gravidanza gemellare; è prevista una sproporzione cefalo-pelvica”.
Le linee-guida inoltre chiariscono che “non costituisce una indicazione al cesareo”:
“un pregresso taglio cesareo; un travaglio pretermine: un’infezione da virus dell’epatite B o dell’epatite C; la gravidanza gemellare semplice”.
Chiaro? È chiaro quindi che, oltretutto, nella maggioranza dei casi di intervento chirurgico, la partoriente (soprattutto quando fa parte della popolazione culturalmente e socialmente più debole) non è informata preventivamente di questa scelta e tanto meno ad essa preparata. E chiaro dev’essere perciò che il parto naturale, fisiologico, va favorito in tutti i modi e ovunque, mobilitando a tutti i livelli le istituzioni, le organizzazioni sanitarie e quelle mediche.
Tutto questo è urgente e necessario, anche e proprio per combattere la speculazione sui cesarei. Speculazione? Parola grossa ma parola vera tratta numericamente dall’ultimo rapporto annuale sull’evento nascita in Italia (il rapporto CeDAP fermo appunto al 2015), e ripescata dalla deputata Sportiello:
per i parti vaginali (cioè naturali, ndr) dopo un precedente taglio cesareo si registra, a livello nazionale, una percentuale pari al 12,6 per cento. Ma il fenomeno si verifica quasi esclusivamente nei punti nascita pubblici dove circa il 13,7 per cento dei parti con precedente cesareo avviene in modo spontaneo, contro il 7,3 per cento nelle case di cura private accreditate, e l’1,9 per cento delle case di cura private non accreditate.
Una scandalosa enormità. Aspettiamo la risposta e gli eventuali impegni della ministra della Salute.
Nell’illustrazione d’apertura il parto cesareo cesareo che diede la luce a Rustam (da una miniatura di Shahnama di al-Firdawsî, Biblioteca di Topkapi Istanbul)

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