Sebastiano Grasso poeta di arcobaleni

Nel suo nuovo libro di versi il poeta si svela e si racconta.
FRANCO AVICOLLI
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Ci sono alberi e natura, in queste cinquanta poesie che Sebastiano Grasso propone al lettore con il titolo È ancora tempo di arcobaleni?. E corpi e volti e figure ricordate con accenni di accaduto, come la suora che “attento al seme”, dice, ed evoca le voglie. Il mondo del poeta è popolato dal pioppo, dall’eucalipto o dal platano, dallo stormire di fronde e dai rami al vento, eco di corpi slanciati e di una fisicità che può opporre resistenza, invitare al dialogo o imporlo o, semplicemente, guidarlo; odora di profumi o respira di colori che sono rose, tulipani e dice di corpi, ancora, di corpi che hanno “afrore d’erba selvatica”, evanescenza e tempo d’infanzia “che portava con sé/ grappoli d’uva”.

“Nobile,” dice del poeta una citazione, “ama le donne che ‘dipinge’ coi versi ed ha un castello”: corpo e parola, si direbbe allora, sono i protagonisti del poetare di Sebastiano Grasso, che parlano dalla complessità – il castello che si rimira – che si guarda, dove è possibile “Rinascere, rivivere, sognare/ ancora senza svegliarsi prima d’essere incoronato…” ri-tornare, cioè, dopo il viaggio e ri-ascoltare “la Serenata/ di Schubert che tua madre suonava al pianoforte”. 

È davvero popolato il mondo di Sebastiano Grasso ed è fatto di una comunità numerosa di pittori come Chagall che diceva a Bella “Fuori,/ il cielo ci chiama” o di quel William Blake, un artista totale e di Klimt e Hayez che sono pittori ed evocatori del bacio che riporta al corpo e al desiderio e di Magritte che invita a “Sognare/ in fretta” che “è quanto ci resta”. E di Fragonard e Monet e Van Gogh che sognava di dipingere. Figure che portano se stesse e le loro evocazioni, come Bellocq, che riporta ai mondi del senso e del piacere e anche del dolore. E poi di una nutrita schiera di poeti come Aleixandre, Antonio Machado e Cendrars e Seifert e Evtuscenko; e di musicisti come Prokoviev, Rimskij-Korsakov con Verdi e Schumann, quell’Eusebio che scriveva a Clara e affermava che “la musica,/…dev’essere scuola di poeti.” Ed è un mondo colto, quello che frequenta Sebastiano Grasso, nella poesia e anche della vita, giacché la narrazione non pare discostarsi troppo dalla Sicilia e dalla Lombardia, da Vergella, Randazzo e Agrigento o da Riva, da Bettola e dal Nure e dal Po, che sono inizio aperto e confine definito, i luoghi dove il poeta si ciba del quotidiano. E sono entità ambigue che dicono di sé, ma anche della vita che non può privarsi del desiderio e neppure del mondo reale, perché essa è sogno, come insegna Calderón, e ”Per vivere non occorre chiedere/ perdono, ma prendere i numeri, cancellare/ gli zeri e rifare tutti i calcoli.”

I luoghi e gli eventi di Sebastiano Grasso portano l’odore del vissuto e hanno profili chiari del “campanile della basilica” o anche di “un tram numero 12”, sono memorie che non vogliono diventare nostalgia, ma indicare un viaggio scandito da una narrazione continua che sospenda gli accadimenti nel loro farsi, per essere vita e senso dell’andare. E perché ciò sia, la poesia deve funzionare come testo e non può rifugiarsi nell’evocazione, ma citarla soltanto, con la parola che stravolge il tempo per essere ciò che racconta, e tatto, labbra e sesso e fremito.

La parola afferra i ricordi e le avventure che “sono figlie del caso” e li divora per restituirli come voce evocatrice e ritmo, assonanze e rotture – Grasso ama il crepitio – che diventano una poesia fortemente sensitiva, che coinvolge, cioè, i sensi impressionati appunto da ciò che costringe il naso a odorare o la bocca e il palato ad assaporare o gli occhi a guardare, elementi tutti che conducono alla corporeità e al territorio, nel senso più ampio, che dà loro cittadinanza. È una dimensione poetica in cui si sente la sfida e la contaminazione, dichiarazioni di appartenenza che rafforzano la vogliosità e liberano il dire che non teme accostamenti e neppure la sensualità che può essere anche ostentazione. 

Che poeti ancorché laureati, come Grasso, abbiano letto altri poeti che hanno scritto prima di lui, non mi pare davvero disdicevole e neppure che nel suo cantare si serva di qualche loro nota. Quando il poeta è in viaggio – È ancora tempo di arcobaleni? è un vero e proprio viaggio nel senso che si cerca con la narrazione – non ama lasciarsi dietro i viaggi di altri perché egli entra in una specie di stato di onnipotenza dove tutto gli è consentito e, poiché ne è consapevole, non può tacerlo, è la condizione della verità che la poesia non può ovviare: “E così nei poeti del ‘900 cerco tracce/ di vita, confronti con vecchie e nuove pulsioni: sono le stesse le parole d’amore?” Il suo viaggio è perciò un andare lungo il sentiero della propria esperienza vitale che incrocia anche l’ampia strada della memoria di altri, perché il poeta anche se può amare la solitudine, non vuole pensarsi in essa. 

E allora rivisita l’amore e lo cerca negli anfratti del corpo che è l’oggetto del desiderio del poeta Grasso e del divino Ovidio che diventa un efficace compagno di viaggio ed è anche rassicurante che assieme essi non cerchino il martirio che trasfigura, ma l’odore umido e voglioso, invece, di due cosce aperte, la corporeità del mondo e i pezzi che lo evocano. Perché il viaggio del poeta non è mai lineare e anche se ha una meta, non può fare a meno di concedersi a ciò che incontra, di afferrarlo, deviare, fermarsi e ri-dirlo perché possa essere l’albero e il suo racconto. 

L’andare è scandito e tracciato dalla parola che è ri-visitazione – Grasso ama il ri – e anche se racconta il corpo e la concupiscenza, il viaggiare nei suoi sensi, lo fa con le parole e quando le ha dette esse devono funzionare come testo ed essere il sapore fisico di ciò che raccontano, essere il corpo e l’accaduto.

È suggestivo seguire il poeta nel suo viaggio ed è bello perché la narrazione può essere anche più intensa dell’evento e la “neve bianca” può diventare nuova esperienza se ri-vive “calda” nella parola, per qualche misteriosa ragione nota al poeta e poi anche al lettore che la cercherà in tale condizione.

Ma dirlo, per poterlo dire, è necessario che le cose vivano nel rincorrersi del tempo e nella caducità che lo accompagna. Ed è proprio questa modalità dell’incertezza che è, insieme, timore della perdita, ciò che sembra rimbombare nella poesia di Sebastiano Grasso. Che sicuramente ha visitato Petrarca e Dante e molti altri poeti e si è fatto dire – proprio così, “si è fatto dire” – di segreti diventati voce del suo dire.

Come ho cercato di segnalare, il viaggio di Sebastiano Grasso è costruito sul filo dell’evocazione e con figure che a loro volta sono se stesse ed altro. Egli stesso si domanda, “A che cosa/ serve rievocare?”, e se in altro luogo ha trovato qualche risposta, “il tuo corpo assente/ evoca orgasmi e sfinimenti…”, egli sa bene che dopo l’accaduto può esserci solo la sfida che può vincere però con la poesia e gli tocca perciò districarsi tra l’esistenza di un mondo già detto che urge per essere ora quello che è stato e che per essere tale bisogna ricorrere al miracolo della parola. La narrazione di Grasso riesce mirabilmente a ricostruire l’accaduto rendendo gli attori complici di uno stesso progetto collocandoli tra tempo, colore, profumo e sapore e la loro certezza, in un’atmosfera fortemente sensuale che creano essi stessi per una loro forza evocativa e con gesti che portano con sé l’eco del pericolo, come “il crepitio” che “incalza nel bosco”, una specie di minaccia che è nelle cose e perciò sempre in agguato che può essere “la voce che si incrina” o “l’acqua che inciampa”, che sanno però che per vivere bisogna sognare un tempo di arcobaleni.

Sebastiano Grasso, È ancora tempo di arcobaleni?, ES, Milano, 2019, pp. 126, Euro 20,00

Sebastiano Grasso poeta di arcobaleni ultima modifica: 2019-04-02T14:28:57+02:00 da FRANCO AVICOLLI
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