Qualsiasi sia il risultato del ballottaggio per l’elezione del sindaco di Chicago, una cosa è certa: dal 3 aprile la città avrà una donna africana-americana come sindaco. Convocate in seguito alla rinuncia a correre per un terzo mandato da parte di Rahm Emanuel, sindaco dal 2011 e uomo di fiducia di Barack Obama, che lo nominò suo capo di gabinetto subito dopo la sua elezione nel 2009, l’elezione di Chicago vede sfidarsi due contendenti: Lori Lightfoot, ex procuratrice federale, e Toni Preckwinkle, ex insegnante e consigliera comunale.
Si tratta di una prima volta per la città ma anche per il paese. Mai nessuna donna ha guidato una delle tre città più popolose degli Stati Uniti (New York e Los Angeles le altre). Inoltre se Lightfoot fosse eletta sarebbe anche il primo sindaco dichiaratamente gay a governare la città.
Ma la vincitrice sarà anche la settima donna africana-americana a guidare attualmente una delle maggiori città americane, come Atlanta o New Orleans. E il tema razziale non è rimasto fuori dalla competizione elettorale. In particolare Preckwinkle e numerosi attivisti politici rimproverano a Lightfoot di aver lavorato contro la comunità nera, criticandone la responsabilità nella gestione della polizia, quando ne era a capo, e poi come procuratrice.
E non è mancato nemmeno il tema dello scontro tra élite e popolo. Lightfoot infatti ha accusato l’avversaria di far parte dell’establishment politico democratico e di essere asservita ai molteplici interessi che hanno impedito ai democratici di riformare la città.
Anche se non bisogna lasciarsi ingannare: Lightfoot è una democratica. A Chicago come in altre città degli Stati Uniti (per esempio Los Angeles, Dallas e San Francisco) l’elezione del sindaco è non-partisan, cioè non vi sono simboli di partito ma è sufficiente compilare moduli e soddisfare una serie di criteri che cambiano da città a città (non significa però che la capacità di mobilitazione del partito non conti).
E quindi dei quattordici candidati che si sono presentati al primo turno, tra i primi nove c’erano sette democratici e due indipendenti. Il terzo classificato è stato l’altro chief of staff di Barack Obama, Bill Daley, erede della famiglia che ha governato Chicago per decenni, trasformandola in una vera e propria macchina elettorale in grado di influenzare le primarie nazionali (il padre fu sindaco dal 1955 al 1976 e il fratello dal 1989 al 2011).

Per quanto siano molto diverse, è il desiderio di chiudere l’era di Rahm Emmanuel che lega però le due donne.
Il sindaco uscente ha deciso infatti di non partecipare alle elezioni per le proteste dei numerosi movimenti e attivisti per la gestione della città. In particolare Emmanuel è stato accusato di aver volutamente impedito la diffusione di un filmato in cui un poliziotto bianco ha ucciso un sedicenne nero e fornito poi un racconto pieno di incoerenze. Una volta rilasciato il video, dopo le proteste del nascente Movement for Black Lives, e accertata la responsabilità del poliziotto (finito poi in carcere), gli attivisti e le associazioni di Chicago si sono poste un solo obiettivo: scalzare dal potere tutti coloro che avevano contribuito a nascondere il filmato. Rahm Emmanuel in primis.
E le candidate hanno tenuto a differenziarsi e a criticare le politiche del sindaco uscente nei confronti delle comunità nera ma anche in generale della gestione “affaristica” di Chicago.
L’elezione di Chicago però non è interessante soltanto per le divisioni democratiche sui problemi razziali e dello scontro tra le politiche proposte dall’anima centrista e quelle proposte dalla componente di sinistra. Ci dice qualcosa sulla percezione del ruolo della donna in politica negli Stati Uniti. Perché qualcosa sta cambiando.
L’onda rosa che alle elezioni di metà mandato del novembre dello scorso anno ha travolto il sistema politico americano – e messo in difficoltà Trump – sembra infatti non volersi fermare. Anzi sembra espandersi anche al governo delle città. Complice forse lo sdegno per l’atteggiamento del presidente nei confronti delle donne e la vicenda del giudice della Corte suprema Brett Kavanaugh, lo scorso anno si erano battuti dei record per il numero di donne candidate come governatrici e alla Camera e al Senato.
Poi era stato il turno delle novanta deputate elette a novembre e l’ingresso di un gruppo di politiche che hanno saputo attirare l’attenzione dei media e che godono anche di molta popolarità, come Alexandria Ocasio-Cortez. E poi Ilhan Omar, Rashida Tlaib, Deb Haaland, Ayanna Pressley e molte altre.
E poi le primarie democratiche. Dei diciassette candidati – dichiarati – sei sono donne. E qualcuna di queste anche in posizione di poter arrivare in testa. Come la senatrice della California Kamala Harris. Un po’ distanti le altre senatrici: Elizabeth Warren, Amy Klobuchar e Kirsten Gillibrand.

Se infatti nel 2015, la presenza femminile al Congresso (Camera dei rappresentanti e Senato) era al 19per cento oggi si attesta al 24 per cento, cinque punti percentuali in più. Se consideriamo l’anno 2001, i punti percentuali diventano dieci. Per trovare poi un aumento rispetto alla legislatura precedente così elevato come quello tra il 2019 e il 2018 – tre punti percentuali – bisogna risalire al 1993. Ed è un fenomeno che riguarda anche le governatrici e i membri delle istituzioni di ogni stato degli Stati Uniti.
Anche nel caso delle città, la crescita della percentuale delle donne sindaco è in aumento. Se nel 2016 le donne sindaco nelle città degli Stati Uniti con una popolazione superiore alle trentamila persone era del 18 per cento, oggi si attesta al 21 per cento. Inoltre per quanto riguarda le prime cento città in termini di popolazione, si contano venticinque donne sindaco, numeri che aumentano rispetto agli ultimi anni. E di queste venticinque, dieci sono donne africano-americane.
Qualcosa è cambiato nella popolazione. Nelle indagini del Pew Research Center una maggioranza di americani pensa che ci dovrebbero essere più donne in posizione di potere. Ma sono soprattutto le donne che stanno maturando una nuova idea dell’impegno politico. Sempre secondo quest’inchiesta sette donne su dieci vedono chiaramente tutte le barriere che devono abbattere per ricoprire delle posizioni apicali, mentre soltanto cinque uomini su dieci vedono queste difficoltà. E il gap aumenta con l’appartenenza politica, con i democratici più attenti agli ostacoli di genere e i repubblicani un po’ meno.

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