versione originale in francese
Che si sia non credenti o credenti, Notre-Dame de Paris è uno dei simboli più forti e amati della civiltà europea. Nessuno osava immaginare che questa cattedrale venerabile e imponente potesse un giorno andare a fuoco. Fatta eccezione per Victor Hugo, che ne aveva fatto un episodio immaginario, alcuni direbbero visionario, del suo famoso romanzo Notre-Dame de Paris.
Ma la magia “Notre Dame” va al di là delle parole. Difficile per un non parigino, certamente, sentire in essa quell’effetto di appartenenza, di familiarità, di vicinanza, che provoca la vecchia signora, di cui ogni parigino può dirsi complice. Il prestigio dell’edificio, sì, la maestosità architettonica, l’esterno e l’interno, naturalmente, l’attrazione turistica, senza alcun dubbio – i tredici milioni di visitatori all’anno sono lì a testimoniare, la necessità del pellegrinaggio per i più credenti, con visita certamente alla Corona di Cristo, ma l’intima appropriazione di questa chiesa, fuori da ogni identificazione spirituale, è difficile da definire.

Parigino da più di trentacinque anni, e non essendo stato per questo un assiduo frequentatore dell’edificio, posso semplicemente dire che la sensazione era che la Grande Signora dovesse essere proprio lì. Parigi senza Notre-Dame non sarebbe più Parigi. È parte integrante del corpo della capitale. O vissuto come tale. C’è chi dice il cuore. Il cuore di Parigi e la Francia. Peraltro è il punto zero delle strade della Francia, si trova sul sagrato da lì, è da lì che si misura il chilometraggio delle distanze. Un effetto, certamente, della centralizzazione tipica dell’Esagono. E non è situato all’Eliseo o all’Arco di Trionfo. No, si trova sul sagrato. Notre-Dame “è” Parigi. Notre-Dame “è” la Francia.

Anche se i restauri intrapresi nel diciannovesimo secolo sotto la responsabilità di Viollet-Le-Duc sanno di gotico kitsch, i parigini hanno a cuore Notre-Dame. Come una specie di potere rassicurante, un animale tutelare situato nel centro della capitale, un talismano contro le escatologie d’ogni sorta, un pegno di eternità. E forse segretamente una nostalgia per il dominio intellettuale della Francia sul mondo occidentale, quando ancora v’era una maggioranza cristiana. Una promessa, comunque, di permanenza, proveniente dalla notte dei tempi e prevista per la notte dei tempi. Un totem per Parigi. Per la Francia. Un totem – perché no? – per l’Europa.
Notre-Dame in fiamme, la scorsa notte tra il 15 e il 16 aprile 2019, ha così creato un effetto sorprendente. D’incredulità. Anche d’impotenza, o forse di fatalismo. Le immagini trasmesse ieri sera avevano più a che fare con la narcosi che con informazioni puramente fattuali.

I vigili del fuoco di Parigi hanno fatto un lavoro titanico, che tutti salutano. La struttura in legno sotto il tetto, risalente al XIII secolo, lunga 110 metri, larga tredici e alta dieci, il legno di 1300 querce, si dice che sia completamente carbonizzata. Il tetto di piombo si è sciolto. La volta sopra il transetto nord è danneggiata. La guglia, appena ripristinata negli ultimi mesi, è andata in rovina. Ma la struttura generale non è crollata. I pompieri pare abbiano fatto le scelte giuste. Avendo la saggezza di non dar retta ai tweet imbecilli del presidente Trump, che con le sue magiche soluzioni a colpi di bombardamenti d’acqua avrebbe fato saltare per aria o irrimediabilmente fatto collassare l’intero edificio, come confermato da tutti gli esperti.
I lavori su impalcature di cinquecento tonnellate previste per il restauro dei tetti, iniziati la scorsa estate e che erano appena stato completati, secondo un piano d’interventi per una quindicina d’anni, sembrano essere all’origine del disastro. Un’indagine è in corso e promette di essere lunga. Il pensiero va inevitabilmente al 29 gennaio 1996, all’incendio della Fenice. Che lasciò tramortita Venezia. E rimanemmo tramortiti per Venezia. Non osiamo pensare che un identico disastro possa un giorno accadere nella Basilica di San Marco.

Un intento criminale, per il momento, sembra da escludersi. Non essendosi davvero ripresa, Parigi, dal trauma del Bataclan, non si può non alludervi. Il simbolo di Notre-Dame è universalmente riconosciuto, non sorprende che gli islamisti radicali l’abbiano effettivamente scritto in cima alla lista dei loro obiettivi di distruzione in Francia. In effetti, poco più di due anni fa, nel settembre 2016, la polizia rilevò in tempo una minaccia di attacco, e arrestò tre sfortunate donne indottrinate, sequestrando un’automobile imbottita di bombole di gas che il commando al femminile era riuscita a far arrivare nei pressi del sagrato della cattedrale. Le signore in jilbab, per fortuna, erano inesperte e mancarono l’inizio dell’incendio, che avrebbe altrimenti causato la carneficina. Fanatismo, non resta che temere il fanatismo.
Oggi, il caso è l’unico colpevole. Ciò non impedisce all’Isis di gioire – sembrerebbe di capire da un comunicato – per questo colpo inferto “al cuore dei crociati”.
Il presidente Macron ha posticipato a martedì sera il suo attesissimo evento televisivo, in programma lunedì sera proprio quando l’incendio divampava rabbiosamente, per rispondere al movimento dei gilet gialli. Senza dubbio userà questo dramma emotivo per cercare di fare appello all’unità nazionale. E salvare il suo quinquennato. Almeno temporaneamente. Le vie del caso sono decisamente impenetrabili.
Eppure, un pezzo di eternità quella notte se n’è volata via. E possiamo solo sperare di poter dire un giorno: “È ritrovata / Che cosa? / l’Eternità. / E il mare dileguato / con il sole”. Così Rimbaud. Ecco Notre-Dame se ne va con Parigi. Non sappiamo quanti anni ci vorranno, quindici o vent’anni dicono già, per ricostruirla, l’eternità.

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