Canova s’è finalmente spostato da Venezia a Napoli

Grande successo di pubblico per la magnifica e inevitabile mostra “Canova e l’Antico” allestita nel Museo Archeologico Nazionale, successo più che scontato essendoci all’origine dell’impresa Giuseppe Pavanello.
FRANCO MIRACCO
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Per entrare subito in argomento, che è poi la magnifica e inevitabile mostra Canova e l’Antico allestita nel Museo Archeologico Nazionale di Napoli con grande successo di pubblico, successo più che scontato essendoci all’origine dell’impresa Giuseppe Pavanello, forse conviene partire da una riflessione dovuta ad André Corboz.

In un suo saggio canoviano, accolto da Pavanello per il catalogo di una mostra tenutasi a Possagno nel 2003, Corboz, inconsueto e stimolante conoscitore d’arte, dice:

Canova funziona solo per spostamento. Camminare pacatamente attorno all’Adone e alle Grazie concentrando la propria attenzione sul modo in cui le sagome aggettano, e quindi si fondono le une nelle altre proponendo continuamente dei profili diversi, equivale a proporre un’esperienza che solo i più grandi scultori sono in grado di offrire.

In questo c’è sia il suggerimento del modo migliore di apprezzare e quindi conoscere l’imprevedibile estetica  dei capolavori canoviani, sia l’implicito invito a non stare fermi se si vuole per davvero scoprire Canova e le sue opere. Che cosa si intende per estetica in relazione alle opere di un artista che separò nettamente il passato dal futuro della storia dell’arte? Infatti è tutt’altro che semplice comprendere la sua produzione, che si muove in un ambito, quello neoclassico, da frequentare mediante la conoscenza di idee e teorie filosofiche, di culture storiche, letterarie e politiche, di mitici esempi di illuminate moralità e virtù civili, con cui s’affermeranno sensibilità, sentimenti, identità, che daranno un senso nuovo (moderno) alle esistenze degli uomini e delle loro società. Un senso nuovo in cui conviene soppesare con giudizio l’apporto di contrapposizioni ideologiche (che pure ci furono) o l’appartenenza a quanto ebbe a che vedere, nella dualità arte e politica, con lo schierarsi in termini rivoluzionari piuttosto che in quelli fortemente conservatori, tra cui non mancarono intellettuali e artisti gelidamente contrari, malcontenti, turbati, essendo figli dell’illuminismo virato al nero.

Allora qui conviene affidarci a Pavanello, senza dubbio tra i maggiori studiosi del neoclassicismo ma indiscutibile, unico rappresentante in terra del divino Canova. In uno dei suoi due saggi del catalogo napoletano si leggono non più di due righe – lì dove s’indugia sul valore delle teste femminili, in particolare i volti – ma due righe più che sufficienti per spiegare, come meglio non si potrebbe, sia Antonio Canova che il neoclassicismo. Ovvero, quei volti

riassumono uno dei tratti salienti della poetica neoclassica l’antico, la natura e l’invenzione, al fine di rappresentare il bello ideale.

Ma dal momento che in simili questioni discendiamo, chi più chi meno, da Giulio Carlo Argan, risaliamo il filo canoviano per trovare che il bello non è “altro che una forma superiore della ragione”, e così a Napoli, con l’occasione di cui si narra, c’è da constatare ancora una volta che una scultura di Canova

risolve in sé ogni relazione spaziale, si racchiude in un involucro impenetrabile, si pone come presenza altamente problematica dell’ideale nel reale, dell’assoluto nel relativo.

Canova e l’antico s‘è detto, e dove se non a Napoli l’antico cercato dal giovane scultore veneziano? Un antico cercato già a Venezia, moltissimo a Roma e tanto più a Napoli, dove l’antico e il suo immaginario gli avrà favorito di certo inconsapevoli profondità interiori, tanto più interiori quanti più inebrianti nel punto voluttuoso della ”invenzione “ di forme che non solo sarebbero apparse come principi a sé stanti ma, proprio per questo, forme determinanti “cose” disvelabili oltre la scultura.

Dunque, se la scultura “si racchiude in un involucro impenetrabile”, la sua inaccessibilità, la sua cosiddetta freddezza, si fa strumento inconscio per ciò che diviene il percepire turbamenti, armonie o disarmonie, in breve sensazioni sorprendenti dovute al mostrarsi della “bellezza”, fenomeno di cui non si sazia la mente di chi sa porsi in relazione con l’involucro impenetrabile.

D’altra parte, la perfezione inaccessibile, però sempre raggiunta e autonomamente voluta dallo scultore, si fa in Canova una sorta di concepimento durante il quale gli viene di provare un particolare piacere. A dirlo è lui stesso, quando non può non separarsi dal gruppo in marmo di Adone e Venere richiestogli da uno dei suoi più felici committenti, il marchese Francesco Berio:

Ho finito il gruppo e mi dispiace d’averlo finito, tanto era il piacere con cui mi occupava.

Francesco Berio, un gentiluomo napoletano straordinariamente interessante, sapiente, dalle raffinate passioni quali il sapersi dotare di opere d’arte o di una preziosissima biblioteca, e che per gran parte della sua vita fu legato a Canova da un’amicizia mai venuta meno. Personalità molto significativa nella storia di Napoli del primo Ottocento il marchese Berio, la cui casa in via Toledo fu luogo di elezione per la più vivace società europea e che dette ai suoi concittadini anche la gioia di vedere ricostruito in soli dieci mesi  il Teatro San Carlo distrutto da un incendio. Si pensi che Berio mentre dirigeva la ricostruzione del San Carlo, stava scrivendo il libretto dell’Otello musicato da Gioacchino Rossini.

Ercole e Lica – Bronzo – San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage

Tra gli indotti più che positivi della grande mostra in corso a Napoli c’è la riscoperta di simili assolute singolarità, ma che si portano oimé appresso il rammarico per la “migrazione” in Inghilterra della mirabile biblioteca Berio e nel Museo di Ginevra dell’Adone e Venere, un tempo perla luminosa in via Toledo.

Torniamo ora allo “spostarsi” attorno alle sculture canoviane, pratica dell’invaghirsi di quelle forme con l’affidarvi più immaginazioni sempre “imposta” da Pavanello e da farsi a lume di candela naturalmente, meglio quindi se nelle ore notturne. Ma quanta cera di candela avrà lasciato colare fino all’ultimo Antonio Canova? E se è precetto dell’artista nato a Possagno nel 1757 lo spostarsi a lume di candela, lo spostamento, ovvero lo studio, la ricerca e il mettersi in viaggio per trovare o ritrovare il noto (più o meno), il dimenticato, o lo scomparso in fatto di “prodotti” canoviani è ciò che va riconosciuto da molti anni ormai a Giuseppe Pavanello.

Chi volesse percorrere la mostra napoletana, lo faccia mandando a memoria la traccia scritta dal curatore:

Se passiamo in rassegna le opere citate che Canova realizzò per Napoli o che iniziò per la committenza napoletana, troviamo esemplificati tutti i generi della produzione: la statua mitologica nel genere delicato e gentile (Adone e Venere), il genere forte e virile (Ercole e Lica), il monumento equestre, il ritratto sia a figura intera (Ferdinando di Borbone) sia in busto (i due Murat), la testa ideale (la Vestale di Matulli d’Ascoli. Ne manca uno, quello del monumento funerario, come pure non era stato eseguito per Napoli alcun bassorilievo.

Solo che dicendo bassorilievo si entra nel “sancta sanctorum” della straordinaria caccia al tesoro vissuta e gustata e spiegata da uno studioso che ha contribuito efficacemente al rinnovamento degli studi sul neoclassicismo a partire da Canova.

Amore e Psiche stanti – Marmo – San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage

Nell’inseguimento ai bassorilievi in gesso di Canova (spesso gettati nei dimenticatoi di molti musei o nel disinteresse di storici dell’arte sprovveduti), Pavanello ha non soltanto esteso mirabilmente il Continente del catalogo canoviano, ma così esplorando e “sospettando” ha aggiunto capitoli alla storia dell’arte del tutto tralasciati colpevolmente.

Di qui un impulso prezioso allo sviluppo storico-artistico e culturale di molte cosiddette città d’arte italiane.

Alla  costante conoscenza dell’universo canoviano e neoclassico partecipa una poliedrica e mai barbosa rivista semestrale di storia dell’arte conosciuta come Ricche Minere (su cui converrà intervenire al più presto) e diretta, ma guarda caso,proprio da Giuseppe Pavanello. Ed è lui che nel numero 8 della rivista ha pubblicato un ampio saggio in cui si narra che lo “spostarsi” all’inseguimento dei bassorilievi in gesso ha consentito salvataggi e ritrovamenti clamorosi. Così a Trieste, Venezia, Milano, Castelfranco Veneto, in molti altri “ripostigli” veneti, e ancora a Perugia, a Roma, via canoviando un po’ dovunque. Nella  speranza, per esempio, di rivedere un giorno la serie di bassorilievi appartenuti all’affascinantissima marchesa Margherita Gentili Boccapaduli, a lungo compagna di Alessandro Verri.Mai dimenticandosi inoltre di cercare se dell’altro, creato da Canova, ci sia da qualche parte Napoli.

I soggetti dei bassorilievi in gesso sono quelli notissimi a studiosi e conoscitori: morte e apologia di Socrate, la danza dei figli di Alcinoo, la morte di Priamo. Tra i primi a rivalutare questo genere di opere fu Argan dato che, lo sottolinea Pavanello, sono state oggetto di diffusa ammirazione alla fine del Settecento.

Quale l’importanza delle tante serie dei bassorilievi in gesso? Perchè, in una certa misura, ci avvicinano alla comprensione dell’immane passaggio compiuto dall’artista tra “concezione immaginativa” e “realizzazione effettiva”. Anche se i bassorilievi sono capolavori finiti, conclusi, ma osservandoli si può capire molto dell’immensa arte canoviana. A Venezia li si può vedere, orrendamente esposti bianco su bianco, presso la nuova ala delle Gallerie dell’Accademia, mentre assai meglio è stato fatto per l’insieme dei capolavori canoviani conservati al Museo Correr, bassorilievi compresi. Dove il tutto, nel senso di neoclassicismo e Canova, ebbe inizio negli ultimi mesi dell’anno 1978 con l’indimenticabile mostra “Venezia nell’età di Canova”.

Quella mostra e quel catalogo (come ebbe a dire più volte Francis Haskell) portarono alla conoscenza delle idee e delle opere di uno tra i più fondamentali periodi della civiltà europea, probabilmente l’ultimo in cui arte e cultura appartennero ad un’unica patria, l’Europa. E questo al di là di rivoluzioni e guerre.

È in quella incredibile esperienza di storia dell’arte applicata, che “nasce” Giuseppe Pavanello in quanto studioso e ricercatore “dell’arca perduta”. Fu in quella occasione che furono scovati in depositi abbandonati, se non peggio, i bassorilievi in gesso e altre opere di Canova esposte oggi al Correr, che in tal modo divenne uno dei luoghi dell’arca ritrovata.

Da Venezia a Napoli dunque, ma soprattutto a Napoli dove di arche da ritrovare (e da tutelare) ce ne sarebbero un’infinità, anche perché è lì che puntarono alcuni tra i migliori protagonisti del Grand Tour. È solo a Napoli, ancor più di Roma, che tra Settecento e Ottocento viene alimentata la formula che crea una nuova coscienza culturale dell’Europa nel campo delle arti: l’antico, la natura e l’invenzione. Appunto, Pavanello docet. Non si comprende una simile affermazione se non si è in grado di immaginare la nascente Pompei degli scavi, le incredibili emozioni visive tra le pendici del Vesuvio, le ville lungo i bordi del Golfo e i templi di Paestum, l’edonismo più seducente in tutte le sue versioni della società partenopea, la miserabilità dei lazzaroni e l’intensità del bello a proposito di natura e residenze principesche e i nuovissimi musei archeologici.

Creugante – Gesso – Possagno, Gypsotheca e Museo Antonio Canova

Un contesto storico dove pervasive sensibilità, personali destini, fantasticherie artistiche, labirinti filosofici e fertili determinazioni estetiche vissero all’estremo i dolori e le pazzie di quanto si presentò come “Il rosso e il nero”. Da ultimo,Napoli che ha riscoperto il suo Canova (sì Napoli, che ha come centro urbano e storico Piazza Plebiscito resa canoviana come nessun’altra piazza italiana dal monumento equestre a Carlo III) dovrebbe  prepararsi a organizzare un’impresa ancor più galattica: far conoscere l’immensa e straordinaria Napoli europea compresa tra il 1780 e il 1830.

Decenni quelli in cui quasi contemporaneamente tutta la migliore Europa dell’intelletto e delle arti converge a Napoli e dintorni. Autori e opere da esporre e far conoscere? Basta leggere il meticoloso diario di viaggio del genialissimo pittore britannico Thomas Jones, o i diari sgrammaticissimi del giovane Canova in compagnia di Giannantonio Selva, o il catalogo che arricchisce scientificamente la mostra di cui sopra. Forse che Canova, Thomas Jones, Giovanbattista Lusieri (pittore diversamente “canaletto”, nonché organizzatore del ratto dei marmi del Partenone su ordine di lord Elgin),William Hamilton, Goethe, Stendhal, Rossini, eccetera, eccetera, non sarebbero sufficienti a ridare, per il tempo di un felicissimo e poliedrico progetto culturale, a Napoli la leggenda che le appartiene di capitale europea? Si deve, fino al 30 giugno,“spostarsi “ a Napoli con Canova.

Canova s’è finalmente spostato da Venezia a Napoli ultima modifica: 2019-04-19T14:01:05+02:00 da FRANCO MIRACCO
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