Libia, il coerente voltafaccia di Trump

Il colpo di scena del sostegno platealmente dichiarato dal presidente statunitense per l’uomo forte della Cirenaica è una mossa che ha una sua logica geopolitica
UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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Non chiamatela giravolta, non scrivete di “tradimento”, non accennate a un voltafaccia. La geopolitica non confina con l’etica, ma fa rima con interessi nazionali, visioni strategiche. È il campo della prosa, anche la più dura, e non della poesia. Per questo il “cambio di cavallo” compiuto da Donald Trump in Libia va annoverato come un atto di lucida e logica coerenza. Il presidente Usa “ha avuto un colloquio telefonico con il maresciallo Khalifa Haftar per discutere gli sforzi antiterrorismo in corso” e la “necessità di raggiungere la pace e la stabilità”, ha reso pubblico la Casa Bianca.

Il presidente ha riconosciuto il significativo ruolo di Haftar nel combattere il terrorismo, e i due hanno discusso una visione comune per la transizione della Libia verso un sistema politico stabile e democratico,

aggiunge la nota.

A Tripoli, dal fronte rimasto fedele al governo di accordo nazionale (Gna) di Fajez al-Sarraj si è gridato al tradimento, e nella capitale sono state inscenate manifestazioni anti-Usa. Ma quello di The Donald è stato un intervento reso necessario perché, di fronte all’imbelle diplomazia europea, l’unico modo per puntellare Sarraj è quello di provare a scendere a patti con l’uomo forte della Cirenaica, e con gli attori regionali che lo sostengono.

Emblematico, per cogliere questo aspetto di fondo, è quel “significativo ruolo di Haftar nel combattere il terrorismo” richiamato dalla Casa Bianca, una sottolineatura che riecheggia le ragioni sostenute dai sostenitori palesi di Haftar, Egitto e Arabia Saudita, che imputano a al-Sarraj di essere “ostaggio” delle milizie islamiche e della Fratellanza musulmana che Il Cairo e Riyadh equiparano al terrorismo jihadista dell’Isis: accusa allargata anche agli sponsor regionali di al-Sarraj, Turchia e Qatar.

E qui sta la lucida e logica coerenza del tycoon: se si vuole davvero provare a stabilizzare il Vicino Oriente, è imprescindibile puntare sul più popoloso e strategico paese del mondo arabo: l’Egitto. L’Egitto di Abdel Fattah al-Sisi.  E questa scelta di alleanza porta con sé la rottura con un altro attore interessato e attivamente partecipe della guerra per procura in atto in Libia: la Turchia di Recep Taayp Erdoǧan. ytali l’ha scritto in anticipo e andando controcorrente rispetto a una pigra narrazione.

Altro che Roma vs Parigi, tradotta in chiave interna in al-Sarraj contro Haftar. Questi, sono frammenti di verità. Ma marginali. Perché al centro della partita libica vi sono due altri player. Due potenze regionali. Due potenze sunnite: Egitto e Turchia.

Civili manifestano contro il generale Haftar in Piazza dei Martiri a Tripoli

Ciò che è accaduto a Palermo, nella Conferenza per la Libia del novembre scorso, ne è solo una riprova: il vice presidente turco che sbatte la porta e se ne va perché non invitato al minivertice informale, perché non gradito dall’uomo forte della Cirenaica, il maresciallo generale Khalifa Haftar, e dal suo protettore regionale, il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, con quest’ultimo che, per dimostrare la sua alterità rispetto agli altri partner messi assieme dall’Italia, lascia la sedia vuota nella seduta plenaria, ufficiale, della Conferenza.

Schermaglie, certo, ma che indicavano o qualcosa di molto più sostanziale, che affonda le proprie radici nella storia, nella geopolitica, negli affari. La Libia, ancor più della Siria, è il terreno di scontro che ha come posta in gioco non solo una ridistribuzione delle risorse petrolifere ma la leadership stessa nel campo sunnita. La storia, si diceva. Magistra vitae, la cui conoscenza sarebbe utile, e tanto, per leggere gli avvenimenti dell’oggi.

La Libia si identifica territorialmente con la facciata mediterranea dell’Africa settentrionale, nella sezione compresa tra il Maghreb e l’Egitto e politicamente corrisponde agli ex domini coloniali che l’Italia conquistò nel 1911 alla Turchia. Anteriormente la Libia come tale non esisteva, persino il nome divenne ufficiale solo il primo gennaio del 1934. Esistevano invece la Tripolitania e la Cirenaica, antiche regioni affacciate sul Mediterraneo e che nelle vicende storiche di questo mare (dall’epoca fenicia a quella romana, all’espansione araba e poi alla conquista ottomana) sono sempre state coinvolte. A esse fu aggiunto il Fezzan, regione interna, sahariana, conquistata dagli italiani nel 1930 e grazie alla quale il paese acquisì una conformazione territoriale più varia, più completa, e una strutturazione geopolitica più africana.

Oltre a interessi militari e politici, l’Egitto è spinto a partecipare attivamente nello scenario libico anche da interessi economici, tanto fragili quanto importanti per il governo di al-Sisi. Il presidente egiziano ha di fatto mostrato la propria preoccupazione per i cittadini egiziani in Libia, lavoratori emigrati da decenni che, una volta iniziati gli scontri militari, hanno cercato protezione in patria pur senza avere la possibilità di essere riassorbiti nel tessuto lavorativo e sociale (scenario attualmente inattuabile per il fragile Egitto).

Le stime dei lavoratori egiziani in Libia si aggirano intorno a una cifra che va dai settecentomila al milione e mezzo di unità. Lavoratori che versano sotto forma di rimesse in Egitto quasi venti miliardi di dollari, linfa vitale per le casse di uno stato in estrema difficoltà economica nonché politica e sociale. A far gola ad Al-Sisi c’è anche il futuro energetico dell’Egitto. Un paese che intende sviluppare la propria infrastruttura industriale ha sempre necessità di petrolio. Necessità che può essere soddisfatta da Haftar, qualora diventi leader riconosciuto della Libia. La vittoria del governo di Tobruk offrirebbe un’opportunità non da poco per l’Egitto, che intende rilanciarsi economicamente anche grazie alle fonti energetiche presenti in una regione nella quale vuole tornare a fare la voce grossa. Linfa vitale per le imprese del settore energetico egiziano, nei decenni passati tagliate fuori quasi del tutto dalla francese Total e dall’italiana Eni.

Un discorso opposto e speculare vale per Ankara. Oggi, la Libia è il terzo partner commerciale della Turchia in Africa. Sono innumerevoli i trattati bilaterali tra i due paesi, tra i quali vanno ricordati l’Accordo per il rafforzamento della cooperazione economica e tecnica (1975) e l’Accordo bilaterale per gli investimenti e la protezione (2009). I due paesi hanno inoltre deciso di dar vita, l’anno prossimo, a un accordo di libero scambio.

Non basta. La Turchia è tra i maggiori investitori in Libia. Sono stati firmati accordi per realizzare progetti d’intervento in Libia, in particolare nel settore delle infrastrutture, che superano i venti miliardi di dollari. In termini di quantità di lavoratori impiegati nella realizzazione di opere all’estero da parte della Turchia, la Libia è il secondo mercato dopo la Russia. Le relazioni tra Turchia e Libia si sono progressivamente deteriorate da quando Ankara (sostenuta dal Qatar) è stata pubblicamente accusata (giugno 2014) dal generale Haftar di supportare il terrorismo (accusa che Haftar ha rilanciato dalla Conferenza di Palermo), chiedendo ai cittadini di Turchia e Qatar di lasciare l’est della Libia, quello controllato dall’Esercito libero nazionale, autoproclamato da Haftar.

L’accusa di alcuni analisti è pesante. Doha invierebbe denaro al Benghazi Revolutionary Shura Council (Consiglio Rivoluzionario della Shura di Bengasi, Brsc), composto da numerose fazioni islamiste. La Turchia, da parte sua, offrirebbe appoggio logistico, soprattutto per i miliziani feriti. Abdullah al-Thani, primo ministro del governo di Tobruk (sostenuto da Haftar ma non riconosciuto dalla comunità internazionale) ha annunciato (febbraio 2015) che la sua amministrazione avrebbe dato uno stop agli accordi negoziati con la Turchia, a seguito del sostegno militare e finanziario dato dai turchi alle fazioni rivali di Tripoli.

Quel che è certo è che ora Erdoğan giocherà qualche asso nella manica per ribadire la presenza necessaria di Ankara sul tavolo libico. E questa carta potrà essere, inevitabilmente, quella dei Fratelli musulmani. Una carta fondamentale, condivisa dalla Turchia e dal Qatar, alleati in Medio Oriente e anche nella partita libica. Una linea che porta allo scontro frontale con l’Egitto. Per i militari egiziani, il pericolo dei Fratelli musulmani – al potere prima del golpe del 3 luglio 2013 – è ancora forte e una Libia in mano a forze a loro vicine è una minaccia ancora maggiore di un conflitto in territorio libico.

Cittadini di Misurata protestano contro il sostegno francese al generale Haftar (Photo credit Mohammed Abudaqqa, Twitter)

In Libia, Trump e i suoi consiglieri hanno compreso la lezione impartita loro da Vladimir Putin in Siria: per giocare un ruolo primario, per essere uno dei player che siedono a capotavola in una ipotetica, ma tutt’altro che irrealistica, “Jalta mediorientale”, a un certo punto occorre scegliere. Senza ambiguità, o giravolte. Altrimenti ci si condanna alla marginalità o si riduce la politica ad un asfittico tatticismo.

Ci si riduce alla marginalità dell’Europa. Trump, a differenza dell’Europa, ha capito che una politica mediterranea che non si rapporti all’Egitto è assurda, destinata ad un fallimento dalle conseguenze esiziali, e non solo sullo scenario regionale. Chi ambisce ad avere un ruolo di prima fila nel Mediterraneo, non può non porsi una questione essenziale: con chi fare sponda.

Un discorso che investe frontalmente l’Italia. Al-Sisi sì, ma fino a un certo punto. Idem per l’Arabia Saudita o per il Qatar… Quanto alla Libia, il nostro sostegno ad al-Sarraj non si traduce, e per fortuna, in un’avventura militare che avrebbe risultati catastrofici. Ma quali siano i “cavalli” su cui puntiamo nella sponda meridionale del Mediterraneo, questo rimane un rebus. Navighiamo a vista. Oscilliamo. In balìa degli eventi.

Fingendo che la ricucitura con Parigi sia risolutiva per rilanciare una politica vincente in Libia. In questo caso, anche se ciò farà sussultare alcune anime candide a sinistra, il consiglio è: imparare da Trump.

Libia, il coerente voltafaccia di Trump ultima modifica: 2019-04-21T09:43:17+02:00 da UMBERTO DE GIOVANNANGELI
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