Niente da fare. Anche quando Valerio Magrelli decide di scrivere racconti, abbandonando momentaneamente i suoi bei versi, la sua prosa si illumina di lampi di poesia. Nel suo libro La vicevita, treni e viaggi in treno il poeta romano esplora, in un susseguirsi di aerei ma profondi racconti brevi, la sospensione, l’altrove, quella sorta di vita parallela in cui ci si viene a trovare quando si viaggia in un convoglio ferroviario.
Chi sta in treno – osserva Magrelli – è segno che vuole andare da qualche parte e lo fa sempre in vista di qualcos’altro, il suo scopo risiede altrove… La nostra vita – aggiunge – pullula di queste attività strumentali e vicarie, nel corso delle quali più che vivere, aspettiamo di vivere o, per meglio dire, viviamo in attesa di altro.
Se sul treno ti siedi al contrario
con la testa girata di là
vedi meno la vita che viene
vedi meglio la vita che va. [Vivian Lamarque]
Il libretto di Magrelli, edito da Einaudi e in libreria da pochi giorni, si apre con questa quartina dedicata a Giorgio Caproni, in cui la leggera vertigine del viaggiatore evoca la profondità di un passato nel momento di un presente che scompare nell’attimo in cui lo si vive (in vista di un futuro che in realtà non esiste). In treno si sperimentano emozioni e dimensioni nuove. Come il lieve smarrimento che ci coglie quando invece del paesaggio che vediamo oltre il finestrino, per un improvviso mutamento di luci ed ombre, ci viene restituita l’immagine del nostro volto tra raggi di luce e riflessi di altri treni, che stentiamo in un primo momento a riconoscere. O quando, in stazione, siamo convinti di essere partiti salvo accorgerci che è il treno del binario vicino ad essersi mosso. È il nostro doppio a muoversi in treno.
Treno-cometa
fiammifero stregato, ferro
sfregato contro le rotaie,
treno-freno che strazia / e stride nella notte.
Sono i primi versi di una delle rare poesie che Magrelli inserisce nel suo libro accanto ai racconti, in un caleidoscopio di emozioni che rivivono nel ricordo dei suoi ma anche dei nostri viaggi, dei nostri spostamenti, della nostra “vicevita”. Il poeta ricorda episodi dei suoi viaggi giovanili effettuati per lo più nelle ore notturne:
(la giovinezza è un fenomeno notturno… dieci, quindici ore di sonno agonico. Smarrimento, smarrimento… e cosa cambia dormire dentro un letto o sopra una lastra d’acciaio, a picco sui binari, in un rombo, uno scasso a centoventi all’ora? Io dormivo così: era il sogno del treno).
Il treno dunque (“un condominio“ o forse “una chiusura lampo che fila sui binari”) ma anche le stazioni, i passeggeri, gli scambi, i pendolari, il vagone ristorante… Le stazioni ferroviarie che “viste dall’alto somigliano a gigantesche prese elettriche, con i binari come immensi cavi”, dove i ristoranti e i caffè
hanno una lunga tradizione di fascino, malinconia o squallore.
Ma anche
puzza, stanzette, agguati, friggitorie, immigrati, capannelli di gente. Un formicaio di piccoli, disperati traffici per sopravvivere.
E il vagone-ristorante dove
ogni tanto mi squillava il telefono e ne approfittavo per chiacchierare un po’, mentre intorno scorreva la campagna, o magari il mare al tramonto, in un arancione al quadrato.
E nelle ultime parole di questo racconto riaffiora il Magrelli poeta così come quando ricorda di aver “dormito nelle fisarmoniche di due vagoni”…
Molti poeti, prima di Valerio Magrelli, hanno subìto il fascino del treno, dal già citato Giorgio Caproni nel suo Congedo di un viaggiatore cerimonioso, lirica metafora della vita e della sua fine, a Carducci a Pascoli, da Emilio Praga a Giovanni Giudici. Ed è proprio a quest’ultimo che Magrelli sembra accostarsi a momenti col suo versificare aspro e metallico. E per meglio apprezzarlo, conviene concludere ricordando proprio i primi versi de La stazione di Pisa di Giudici:
Stazione di Pisa, il buio brivido
che all’alba ti destava era il segnale
convulso del diretto.
I frenatori,
con gli occhi chiari madidi di nebbia,
accorrevano neri tra i binari:
rispondevano al grido del fochista.

Nell’immagine d’apertura End Train di Carl Dimitri

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