Era il 17 aprile 1961 e la rivoluzione castrista aveva superato da qualche mese i due anni di vita. Dopo lunghi preparativi in Guatemala e in Nicaragua, un gruppo di mercenari sbarcava sulla spiaggia di Girón – la più nota Baia dei Porci – con l’obiettivo di creare una testa di ponte, insediare un governo provvisorio a Cuba e richiedere l’intervento degli USA. La missione era stata progettata al tempo della presidenza Eisenhower che aveva dato alla Cia l’incarico di organizzarla. John Kennedy, da poco insediato alla Casa Bianca, confermò l’iniziativa militare fissando dei limiti operativi che crearono qualche malcontento. Le polemiche e le divergenze fra personaggi dell’entourage presidenziale favorirono la fuga di notizie che giunsero anche al governo cubano che, pur senza sapere quale sarebbe stato il luogo dello sbarco, ebbe modo di prepararsi all’invasione mettendo al riparo i pochi aerei da combattimento di cui disponeva.

Nel giro di settantadue ore le milizie cubane respinsero l’attacco e catturarono i quasi 1.200 superstiti che, dopo un processo, vennero restituiti agli USA verso la fine del 1962 in cambio di 53 milioni di dollari in medicine e derrate alimentari per bambini. John Kennedy riconobbe la responsabilità dell’attacco militare e Cuba non mancò di segnalare che Playa Girón era il luogo e il simbolo della prima sconfitta degli USA nella storia dell’America.
La sconfitta che conferma la rivoluzione cubana e la crisi successiva dei missili nell’ottobre 1962, che portò sull’orlo del conflitto gli USA e l’allora URSS di Kruscev, mettono in crisi la dottrina Monroe che aveva orientato la politica americana con il protagonismo unico degli USA. Si tratta di eventi con valenza epocale perché aprono percorsi che attaccano l’egemonia americana. Gli USA avviano una serie di iniziative ideologiche, economiche e commerciali con lo scopo di definire gli schieramenti contro il “nemico cubano” e il “comunismo” blandendo, se necessario, o lasciando spazio alla discrezionalità, ma mai alla possibilità di equivoci.

Ed è nell’ambito di una strategia che mira a generare nemici esterni e interni, ostacolando la realizzazione di progetti economici e sociali, che la potenza nordamericana decide, nel 1962, il blocco del commercio con Cuba sia direttamente sia per il tramite di stati terzi. È una decisione più volte condannata da molti paesi e dall’ONU che non impedirà tuttavia agli USA di confermare il pericolo di Cuba, che viene inclusa nella famigerata black list dei Paesi terroristi.
Dopo la recente e breve parentesi di Barak Obama, Trump ritorna alla carica e decide che a partire dal prossimo mese di maggio venga applicata integralmente la legge Helms-Burton del 1996 anche per il capitolo che autorizza azioni legali di tribunali statunitensi contro enti cubani e di altri Paesi esterni alla giurisdizione degli USA, ribadendo con ciò un’ostilità che alimenta schieramenti di campo, giudizi sommari, diffidenza e rancori. La legge risponde a un sistema premiale basato sulla convergenza, su un percorso che considera la deviazione – la mela della conoscenza – un atto ostile che legittima l’azione ritorsiva di una forza che per definizione è clemente e comprensiva.
Luigi Ferrajoli ritiene che una delle ragioni dell’aumento del senso di paura e di incertezza che caratterizza il nostro tempo sia dovuto alla “tendenza a definirsi sulla base dell’identificazione di nemici”. Che corrisponde appunto all’atteggiamento nordamericano verso Cuba quando decide ciò che è lecito e ciò che non lo è, prescinde dalle regole della convivenza, punta a indebolire il potere legittimo di un Paese creando problemi interni che suscitano paura e diventano odio e rancore indeterminato.
In questa “società stadio” che si alimenta di sensazionalismo mediale, sfugge il lavorio ai fianchi della guerra che si ordisce nelle riunioni dove si studiano le strategie per formare le squadre contro nemici potenziali o reali, portatori di un male che non coincide con qualche principio che renda difficile la convivenza, ma con l’interesse di parte, con la paura di perdere il controllo o il potere decisionale. Questi circoli coltivano la certezza e trasmettono l’idea che l’avversario, il nemico, il male, sono quell’entità che attenta allo status quo e alla catena di comando che assicurano il benessere e la pace. È la visione del mondo delle classi e delle potenze dominanti che intendono in loro funzione lo stato di sicurezza, anche se sanno bene che almeno cinque miliardi di persone su sette non conoscono affatto che cosa sia la sicurezza o non sanno che cosa farsene di quella esistente.

L’ordine è definito sull’esistenza di un nemico/avversario, di un pericolo potenziale che spinge a creare dispositivi di difesa, alleanze e convergenze e funziona sulla paura di un qualche tragico evento imminente da scongiurare. Lo scenario si popola di nemici con nome e cognome che si trovano in qualsiasi parte del mondo inclusa la strada, la città, il paese dove si abita. E, sullo sfondo, la figura rassicurante del grande fratello, sapiente, vigile e previdente come il “Grande Inquisitore” di dostievskijana memoria, che protegge gli equilibri, decide le strategie, sorride protettivo per dare sicurezza contro una forza in agguato che potrebbe essere il vicino di casa che usa la curcuma e non il prezzemolo, il migrante che potrebbe toglierti il lavoro o anche la casa, o la setta religiosa che è sempre islamica, o il poveraccio che si arrangia, o anche il temibile Maduro che si ostina a creare problemi con il petrolio e non è neppure capace di far funzionare il sistema elettrico del Paese. E se non bastasse, ecco i terroristi spietati che alimentano i conflitti nel mondo che, secondo i dati della Caritas italiana, erano 378 nel 2017.
Poi nessuno spiega perché tutti questi seminatori di terrore hanno armi che non sono in grado di costruire; qual è il rapporto tra le guerre e il petrolio, o l’oro, o qualche materia prima importante; o come mai padroni e mercato sono in Europa o nel nord America o in Russia e Cina; o come mai le grandi ricchezze convivono con una popolazione nella miseria, senza futuro né diritti.
“Ma qual è il problema?” dice l’ente protettore: si tratta di popolazioni sottosviluppate che non hanno voglia di lavorare e vogliono venire a casa tua per prenderti quello che hai. Che si ammazzino pure fra di loro purché stiano lontano dai nostri figli. Il grande fratello inquisitore è potente, e se le raccomandazioni fatte restano inascoltate, ricorre alle sanzioni, ricorda la pericolosità del nemico e mostra i mezzi per combatterlo, e sono mezzi che permettono di gestire lo scontro da lontano e tra la colazione, il pranzo e la cena, schiacciando un bottone dal deserto del Nevada o in qualche posto sperduto dell’Arizona.
È un metodo che perfeziona la bozza scritta con la Seconda Guerra Mondiale e i quasi cinquanta milioni di civili – su settanta – periti in casa o per le città, al lavoro e senza armi. E non è lo scenario del bisogno di conquista di qualche pezzo di terra, ma della paura di perdere quello che si ha, di difendere una ricchezza che nega la convivenza.

Indipendentemente dalla situazione nella quale vive oggi Cuba, Playa Girón è un evento storico che offre una chiave di lettura di una dimensione dove si cerca di legittimare l’uso della forza contro un nemico troppo raccontato per essere vero. Ed è necessario ricordare quel gesto di libertà e denunciare le politiche che avvelenano le società con la nobiltà che si riunisce attorno alla Festa della Liberazione.
Le fotografie sono di Osvaldo Salas

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