Lo scorso 31 marzo la Turchia è andata alle urne per eleggere i sindaci nelle trenta città metropolitane, 51 province e 973 distretti in cui è suddiviso il paese. Le elezioni, le prime dall’entrata in vigore del sistema presidenziale lo scorso giugno, hanno riservato non poche sorprese. A dominare l’agone politico sono state due coalizioni, l’Alleanza del Popolo, composta dall’Akp del presidente Recep Tayyip Erdoğan e dagli ultranazionalisti del Mhp, e l’Alleanza della Nazione del Chp socialdemocratico e del partito di destra Ip, che hanno entrambe presentato una lista comune nei centri principali.

Se i turchi (84 per cento di affluenza) hanno riconfermato l’Akp come primo partito (44,3 per cento, coalizione 51,6 per cento), l’opposizione ha segnato un successo significativo (Chp 30,1 per cento, coalizione 37,5 per cento) nelle maggiori città del paese. L’Akp, infatti, ha perso la capitale Ankara, Istanbul, centro economico del paese, Antalya, capitale del turismo, Mersin, principale porto sul Mediterraneo e Adana, importante centro industriale. Con Smirne già saldamente in mano all’opposizione, l’unica delle grandi città rimasta all’Akp è Bursa (vinta con due punti di scarto). Considerando che queste città producono quasi il sessanta per cento del PIL del Paese e hanno un reddito procapite superiore alla media turca, esse rappresentano anche essenziali fonti di entrate per il partito che le governa.
Nella capitale Ankara, feudo dei conservatori islamici dal 1994, il candidato del Chp Mansur Yavaş (5,9 per cento) ha sconfitto Mehmet Özhaseki (47,1 per cento) dell’Akp. Yavaş, già candidato col Mhp alle elezioni del 2009 e sconfitto col Chp a quelle del 2014, denunciate per brogli, ha potuto contare sulla sua lunga esperienza locale e sulla sua passata militanza tra le fila del Mhp, che gli è valsa qualche voto in più. A nulla sono serviti i tentativi di infangare la sua reputazione da parte dell’Akp tirando in ballo problemi legali del periodo in cui Yavaş era avvocato. D’altro canto, Özhaseki, scelto da Erdoğan perché esponente di spicco del suo partito, era precedentemente sindaco della città anatolica di Kayseri e quindi totalmente estraneo alle realtà di Ankara.
Istanbul ha visto il candidato Akp Binali Yıldırım, ex ministro, primo ministro e presidente del parlamento nonché fedelissimo del presidente, competere col candidato Chp Ekrem İmamoğlu, relativamente sconosciuto sindaco del distretto di Beylikdüzü a Istanbul. La serata di domenica ha visto Imamoglu rimontare voto dopo voto fino a superare l’avversario. Anadolu Ajansı, organo di stampa ufficiale ma vicino all’Akp, ha quindi interrotto il conteggio verso le 23.30 per le successive dieci ore, con lo spoglio delle schede fermo al 98,3 per cento. Inizialmente entrambi i candidati hanno dichiarato vittoria, ma poi Yıldırım ha ammesso di essere in svantaggio. Lunedì mattina, l’esito definitivo: İmamoğlu (48,8 per cento) ha vinto sull’avversario (48,5 per cento) per meno di trentamila voti. A Smirne, terza città del paese e da sempre roccaforte dell’opposizione, il candidato Chp Tunç Soyer ha vinto con 58,1 per cento contro lo sfidante Akp Nihat Zeybekçi (38,6 per cento).
Bisogna però considerare anche il ruolo del partito filo-curdo Hdp, la cui leadership ha deciso di non schierare candidati nelle città dell’ovest del paese, esortando allo stesso tempo i propri elettori a votare la principale coalizione dell’opposizione. Nel sudest, sua roccaforte tradizionale, l’Hdp ha vinto in alcuni centri importanti, tra cui Diyarbakır, la capitale morale del Kurdistan, e Van, registrando un 4,2 per cento a livello nazionale, in netto calo rispetto agli scorsi anni.
Ha tuttavia ceduto alcuni importanti centri all’Akp, in particolare Şırnak, semidisabitata e presidiata da migliaia di membri delle forze di sicurezza, inviati da Ankara e abilitati a votare. È infatti importante ricordare che molte città del sudest curdo sono commissariate, con sindaci e militanti Hdp in carcere per legami (veri o presunti) con il Pkk, organizzazione terroristica curda, e rimpiazzati con governatori nominati dalla capitale. Infine, la provincia di Tunceli, sempre nell’est del paese, ha visto la vittoria per la prima volta nella storia del Partito comunista turco (Tkp), con il candidato Fatih Maçoğlu, precedentemente sindaco del distretto di Ovacık nella stessa provincia.

Il Chp quindi vince nella Tracia europea, su quasi tutta la fascia costiera dal confine bulgaro a quello siriano, in un nucleo di cinque province attorno ad Ankara e in un paio di province nel nord del paese. L’Akp mantiene gran parte dell’Anatolia interna, della costa del Mar Nero e del sudest. L’Hdp si aggiudica poche ma importanti province nel sudest, mentre gli ultranazionalisti del Mhp vincono in una decina di province, comprese alcune città di rilievo. Il partner minore dell’opposizione, l’Ip, terzo partito per voti ricevuti, non riesce a sfondare in alcuna provincia.
L’Akp non ha accettato il verdetto delle urne e ha chiesto al Consiglio Supremo Elettorale (Ysk), organo sotto la sua influenza, un riconteggio parziale ad Ankara e totale a Istanbul. Dopo alcuni ritardi, Yavaş è stato confermato vincitore ad Ankara (8 aprile) e İmamoğlu a Istanbul (17 aprile).
Dopo che un’ulteriore richiesta di riconteggio è stata rifiutata, l’Akp ha richiesto di annullare il risultato di Istanbul e indire nuove elezioni in città per il 2 giugno, adducendo che la differenza di voti, scesa a 13.000 dopo il riconteggio, sia troppo piccola e denunciando irregolarità in alcuni distretti.
Al momento l’Ysk non si è ancora pronunciato. L’Akp, infatti, non può permettersi di perdere il centro simbolico ed economico del paese. Oltre a essere stata la pedana di lancio di Erdoğan quando diventò sindaco della città nel 1994 nonché sede dell’eredità imperiale ottomana, la metropoli sul Bosforo, sedici milioni di abitanti, è una fondamentale fonte di entrate per chiunque voglia governare la Turchia.
A determinare questa vittoria mutilata di Erdoğan sono state le critiche condizioni in cui versa l’economia – da sempre il maggior punto di forza dell’Akp – ormai in recessione (+7.4 per cento nel 2017, +2.6 per cento nel 2018, -1.8 per cento previsto per il 2019), l’inflazione al venti per cento, la disoccupazione al 13,5 per cento e la retorica aggressiva e divisiva del presidente, mirata contro oppositori interni ed esterni. In contrasto con il messaggio dell’opposizione, che ha generalmente parlato di inclusione apartitica e dei problemi quotidiani dei cittadini.

Dopo le elezioni, Erdoğan ha promesso riforme economiche, con possibile rimpasto di governo, e ha ventilato un’operazione contro l’Ypg dei curdi siriani, affiliati al Pkk. Quest’ultima mossa potrebbe distogliere nel breve periodo l’opinione pubblica dall’economia, che però risentirebbe delle conseguenze delle spese belliche.
Più importante è forse il segnale di malcontento nei confronti del nuovo sistema presidenziale, bocciato dalla popolazione dei grandi centri urbani nelle prime elezioni dopo la sua introduzione a giugno 2018.
È altresì evidente il fallimento di questo nuovo ordinamento, creato per porre fine alle coalizioni, ma che vede Erdoğan sempre più dipendente dall’alleanza col Mhp per riuscire ad aggiudicarsi una maggioranza risicata.

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