Secondo fonti dell’amministrazione americana, i cubani impegnati in Venezuela a sostegno del governo chavista sono tra i venti e i venticinquemila. Dall’Avana, il nuovo presidente Díaz-Canel nega che militari del suo paese siano dislocati in Venezuela. La Russia di Putin, ha recentemente inviato un centinaio di militari non facendo nulla affinché la cosa non si risapesse, e con la Cina concede consistenti prestiti al regime venezuelano.
L’impresa statale russa del petrolio, Rosneft, consente alla venezuelana Pdvsa di aggirare e farsi beffe dell’embargo americano, e con la spagnola Repsol e l’indiana Reliance Industries è oggetto delle critiche dell’amministrazione Trump, che si spinge a minacciare di applicare quel tipo di sanzioni che già hanno colpito le aziende che fanno affari con l’Iran.
Nicolás Maduro Juan Guaidó
Sul piano dello scontro tra Juan Guaidó e Nicolás Maduro, non c’è stata la spallata finale su cui l’autoproclamato presidente interino contava. Il bilancio si chiude al momento con un pareggio, che mette in risalto i punti deboli di entrambe le parti.
Se è vero che ad anticipare il tutto sono state le voci di un suo possibile arresto durante la manifestazione del Primo Maggio, Guaidò ha dimostrato la sua insufficienza, pur continuando a rappresentare la speranza di cambiamento che molti dei suoi connazionali stremati, e privi di reali alternative, gli riconoscono.
Al contempo facendosi strumento di una prova di forza dietro la quale si manifestava la volontà di potenza americana, un motivo diffusamente indigeribile nel Venezuela dall’epoca di Chávez in avanti.
Più della metà dei quaranta militari che si sono fatti fotografare con Guaidò ha chiesto asilo all’ambasciata brasiliana. Da parte sua Jair Bolsonaro ha preso le distanze dal tentativo di mandare a casa Maduro, giudicandolo improvvisato.

Leopoldo López, il capo dell’opposizione che era stato condannato a quattordici anni di carcere, scappato dai domiciliari, è ospite dell’ambasciata spagnola, mentre il suo appartamento di Caracas è stato perquisito e derubato dal Servicio Bolivariano de Inteligencia (Sebin).
I tre alti personaggi, tra cui il ministro della difesa Vladimir Padrino, che pare avessero intrapreso a colloquiare con Elliott Abrams, rappresentante speciale USA per il Venezuela, al fine di consentire una dignitosa uscita di scena a Maduro, hanno chiuso i loro telefonini e stanno per il momento tranquillamente al loro posto.
L’unico a pagare, Manuel Figuera, ex capo del Sebin sostituito da Maduro martedì notte probabilmente per aver lasciato scappare Leopoldo López, ora annuncia la sua rottura col regime. Mentre il presidente annuncia per il fine settimana un grande esame di coscienza sugli errori commessi in questi anni dal regime. In un sostanziale pareggio tecnico, tutte le soluzioni sono sul tavolo di Trump, compresa quella militare, ricorda l’amministrazione americana.
Se sul serio decidesse per la critica delle armi, Trump dovrebbe passare al vaglio del consiglio di sicurezza dell’Onu, dove Cina e Russia hanno facoltà di veto. E portare la questione anche in seno all’Organizzazione degli stati americani, con tempi che si farebbero lunghissimi.
Se poi ci si arrivasse veramente, potrebbe generare nel Paese una situazione alla siriana, di certo per nulla conveniente in primo luogo per gli Usa, che hanno più volte ribadito il loro disimpegno dagli scenari che li vedono coinvolti militarmente.
La lunghezza di un eventuale iter che sfoci in un’operazione militare per mandare a casa Maduro, potrebbe invece favorire il dialogo, e la ricerca di una soluzione in cui entrambe le parti decidessero di rinunciare a qualche cosa per andare a nuove elezioni controllate da autorità internazionali. O spingere l’esercito venezuelano, avute le debite garanzie di tutela, a farsi promotore di un tale processo, una volta messo da parte Maduro.

In tutto ciò, Donald Trump sta usando la questione venezuelana come arma per la sua campagna presidenziale del 2020, e in ciò gli fa gioco ampliare il suo raggio di fuoco prendendo di mira Cuba, smontando tutti gli accordi di Obama, minacciandola di inasprire le sanzioni.
La gestione di tutta la vicenda ha dimostrato un eccessivo ottimismo del segretario di stato Pompeo e di Bolton nella possibilità che il gesto di Guaidó potesse scatenare la rivolta militare, che non c’è stata.
Nonostante il malessere che serpeggia nelle forze armate, le sempre più numerose defezioni e gli espatri da parte di militari, i comandi sono rimasti fedeli a Maduro, e l’infezione è rimasta circoscritta nella base militare di La Carlota a Caracas.
In questa prospettiva, pare quindi non sufficiente la promessa di amnistia che Guaidó ha offerto fin dall’inizio ai militari affinché smettessero l’appoggio al regime. Il messaggio che gli è stato recapitato non deve essere stato sufficientemente chiaro riguardo alla funzione loro riservata nel nuovo ordine politico.
A questo punto, a meno di un intervento militare unilaterale da parte degli Usa sulle cui conseguenze il ministro degli esteri russo Lavrov è stato fin troppo chiaro, e su cui Mike Pompeo ha detto che si sta preparando per intervenire “se è questo ciò che è necessario”, a Trump non resta che continuare nella sua politica di sanzioni sempre più dure ed estese nei confronti di uomini e imprese che fanno affari con il Venezuela.
Nella speranza che la pressione diplomatica ed economica e il lavoro di intelligence sotto traccia portino in tempi per lui elettoralmente ragionevoli alla caduta di Maduro, travolga il Nicaragua di Daniel Ortega, per investire alla fine, con l’onda di rimbalzo, l’odiata Cuba. Un sogno con cui agitare il suo elettorato in vista delle presidenziali, che mai come ora, deve apparirgli a portata di mano.

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