Anche Herman Koch ha cominciato da piccolo. Gran fustigatore dei vezzi e delle ipocrisie borghesi nell’epoca del politicamente corretto, lo scrittore olandese torna in libreria con La scuola, in prima edizione italiana per Neri Pozza, tradotto da Stefano Musilli. Romanzo che risale al 1989 (titolo originale Red Ons, Maria Montanelli), l’anno della caduta del Muro di Berlino (sembra passato un secolo, soltanto ieri) e ben prima della fama internazionale ottenuta con La cena (Het Diner, 2009) e poi Il fosso (De Greppel, 2016).
Ricordate? Due coppie a cena, in un ristorante naturalmente di classe, mentre i loro figli mandano “innocentemente” al creatore un senzatetto. E loro lì a chiosare, bisticciare, stupirsi, inorridire per poi approntare la “dovuta” complicità: sempre figli sono.
Oppure quel sindaco di Amsterdam, gran bella persona e sincero democratico, amico di Obama e Hollande, che mai rinuncerebbero ad un colazione con lui, altro che lo scialbo primo ministro, travolto nel privato da una gelosia che svela inquietanti motivi nascosti, il razzismo per esempio.

Ancora Amsterdam, un quartiere bene, abitato da facoltosi intellettuali, artisti, giornalisti e teatranti,
[…] dove nevrotiche veneri in pelliccia camminano specchiandosi continuamente nelle vetrine dei negozi e uomini in completo, troppo grassi o troppo magri, si dedicano pure loro allo shopping, come se non avessero niente di meglio da fare.
E i figli? A scuola, al Liceo Montanelli, una vera istituzione, intitolata alla memoria e al “metodo” di un’educatrice e pedagogista italiana del primo Novecento, Maria Montanelli, resa famosa dalle modalità innovatrici dei suoi sistemi di insegnamento: dalla parte dei ragazzi, che in origine erano i trovatelli di Napoli, mica i rampolli della nuova borghesia illuminata. Non ci vuole molto a capire di chi stiamo parlando…
La scrittura di Koch è sempre diegetica, assumendo il punto di vista di chi racconta. Costi quel che costi, il più delle volte tanto. Così tanto da farci sorgere il dubbio che lo scrittore sia un reazionario radicale, che disprezza la modernità nei suoi presupposti e assunti persino basici. O forse il cinico analista di una necessaria catarsi?
Ecco dunque il narratore de La scuola, un ragazzo decisamente problematico, il peggiore della classe e forse della scuola, che ha in odio, con tutto quel suo “buonismo” prezzolato. La madre in fin di vita e poi all’altro mondo, un padre che più assente non si potrebbe, da tempo legato sentimentale ad una vedova bellona che abita a pochi isolati. Più anziana del padre, per giunta e, nonostante tutte le arie che si dà, assai meno attraente della madre, che non ha la forza o la voglia di mandare il fedifrago a quel paese. E lui, il ragazzo di brutte speranze, a macinare voti scarsi e insani propositi. Odia così tanto, quel suo quartiere e quella sua scuola, da sognare che prima o poi scoppi una nuova guerra, con gli aerei a bombardare e radere al suolo ogni cosa, in quel maledettissimo angolo di sedicente paradiso terrestre, in realtà una noia mortale.
E i professori? Buoni quelli, sempre lì a pontificare sui percorsi individuali per raggiungere autonomia e piena maturità, le valutazioni piuttosto che i voti, che fanno tanto ancien régime, al bando ogni nozionismo e piuttosto l’arte maieutica di far sorgere e sbocciare il talento, che c’è certamente, da qualche parte, in ognuno di noi. Let’s Go Talent! Non s’usa, ancor oggi, dire così? È persino diventata una trasmissione televisiva di successo, quella nozione in qualche modo partorita dai nuovi orizzonti pedagogici profetizzati dalla Montanelli, codificati da rigorosi percorsi di studio universitari, che naturalmente oppongono alla barbosa lezione frontale, ex cathedra, il dialogo, il confronto, l’autoapprendimento e via assemblando.

Per il nostro giovane narratore, quei professori sono essenzialmente dei falliti, che per primi non credono a quel che dicono, e quando ci credono – il nuovo prof di educazione fisica, per esempio – non s’accorgono di quanto sono patetici. Da salvare quasi soltanto il vecchio docente di storia, volentieri avvinazzato nell’ascoltare coi ragazzi un po’ di jazz quando li invita, una volta alla settimana, a casa sua. Svalvolato anche lui, ma il giorno dopo, in classe, ben presente a se stesso, in parte, come se i fumi della sera prima mai gli avessero annebbiato la vista. E poi la giovane nuova insegnante, carina, accettabile forse perché non ancora contaminata dal mestiere.
Qualcosa di positivo in realtà c’è, un paio di amici, con cui macchinare diavolerie. E poi quel nuovo arrivato, Jan Wildschut, non tutto a posto con la testa, diciamo pure un ritardato, sciarpa e manopole felpate estate e inverno, l’ideale per scherzi di pessimo gusto, la vittima designata di un bullismo così naturale da non sembrare neanche una cosa brutta. Mica è colpa nostra se è così scemo…
Da un certo momento in poi, La scuola diventa cronaca di una morte annunciata, che maturerà nel corso di una disgraziatissima “settimana di lavoro” (si chiamano così, alla Montanelli, le vecchie gite scolastiche), una biciclettata per i sentieri di una interminabile foresta.
Il romanzo di Koch ha trent’anni, come s’è detto, ma non li dimostra. Nella quarta di copertina dell’edizione italiana è riportato lo strillo di un quotidiano olandese (De Volkskrant, posizioni di centrosinistra) secondo il quale “dovrebbe essere una lettura obbligatoria in tutte le scuole”.
Concordiamo. Perché fa giustizia di molte delle ipocrisie che ancor oggi tengono banco in nome dei nuovi pedagogismi, con buona pace della Montanelli, che ha le sue ragioni per rivoltarsi un’infinità di volte nella tomba guardando alle fole dei suoi tristi e compunti, quando non impettiti, epigoni.

Perché la sua lettura può ben risultare terapeutica, indicando le derive cui può condurre certo ideologismo: l’incomprensione della realtà e, di conseguenza, il formarsi di ribellismi in fondi retrivi.
Nell’Europa dei populismi, dei sovranismi e dei nuovi nazionalismi forti sono, presso i giovani, le tentazioni a solidarizzare con le fobie vecchie e nuove dell’armamentario fascista: prendersela sempre e comunque con il diverso, responsabile di ogni nefandezza.
E quando il diverso non ce la fa più? Jan Wildschut insegna, da un ponte sospeso sul fiume della vita. Meditate, gente.

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