Un centro all’avanguardia nella cura del mieloma.
Così aveva riferito al telefono, orgoglioso, il primario al quale naturalmente eravamo arrivati con la solita segnalazione, perché in Italia, e in particolare al centro-sud, se t’ammali senza raccomandazione, quando tutto va bene, rischi di ritrovarti parcheggiato su una barella in un corridoio per interminabili giornate, con un infermiere o un dottore di passaggio che di tanto in tanto ti concederanno una pacca consolatoria sulla spalla.
E così, fidandoci del “centro all’avanguardia”, sfiniti da precedenti degenze in altre strutture in cui s’annaspava nel buio con diagnosi tra le più varie e contrastanti, abbiamo deciso di ricoverare mia suocera.
“ONCOLOGIA” la sola parola a caratteri cubitali all’ingresso del padiglione fa venire i brividi quando varchi quella soglia, ma proprio per questo immagini che troverai una situazione più ovattata e delicata nel rispetto del dolore che abita quei corridoi e quelle stanze.
Iniziano lunghissime e interminabili giornate, dodici ore al giorno seduto sulla stessa sedia color grigio sbiadito, dura come una pietra, mentre davanti ai tuoi occhi passa di tutto.
Il dolore, quello reale che si taglia nell’aria con il coltello, e l’ansia, la paura, la speranza, le aspettative. Sono tutte sensazioni astratte, emozioni, energie.
Poi ci sono le cose concrete, quelle che con solidità si manifestano: il chiacchiericcio dei medici, degli infermieri, degli inservienti che a voce alta e spesso sguaiata stazionano nei corridoi, il più delle volte fuori dalla porta di stanze in cui alberga il dolore e in alcuni casi già un odore acre di morte. C’è l’assenza assoluta di una parola di conforto e di un sorriso gentile da parte del personale, il quasi fastidio di troppi medici nel doverti ripetere su tua preghiera che non resta più nulla da fare se non aspettare, come se si stesse parlando del tempo che farà domani. Ma loro, i dottori, hanno troppa fretta, è routine, si corre in corsia e anche se la morte è in arrivo non ci si può fermare.
Dalla tua postazione fissa sulla sedia, osservi i malati stesi su barelle trascinate da portantini che se portassero una cassetta d’acqua ne avrebbero più cura. Nelle stanze di un reparto che purtroppo per alcuni rappresenta anche l’anticamera per un ultimo viaggio, si ha la sensazione che i ricoveri non siano regolati da alcun criterio. Accade così che un malato in fase terminale si ritrovi nella stessa stanza con persone per loro fortuna un tantino più in forma e con i loro parenti chiassosi che banchettano a pasta al forno e panino e mortadella, senza nessuna forma di pudore e di rispetto né per il malato, né per i suoi cari che vivono gli ultimi giorni, a volte ore, di vita insieme.
Ci sono lenzuola sporche di sangue che solo la tua insistenza riuscirà a far cambiare da parte dell’infermiere di turno, perché la prima risposta sarà sempre che non c’è altra biancheria pulita. Non ci sono i ganci per le flebo e si usano i guanti di plastica come fossero elastici per attaccarle al letto del paziente. E può accadere, com’è accaduto, che una signora muoia e nella più assoluta normalità e indifferenza sia parcheggiata in barella, prima in corridoio e poi addirittura nella sala d’attesa sgombrata dei molti occupanti.
Tutto questo sotto gli occhi di parenti in visita ma anche di numerosi pazienti, perché nel reparto di oncologia all’avanguardia, porta a porta con le stanze di degenza, ci sono anche i laboratori di analisi degli esterni che con il numerino stanno facendo la fila. E la salma resta lì, dietro quella porta socchiusa della sala d’attesa, un’oretta abbondante. E intanto c’è chi telefona, chi continua a chattare, tutti aspettando il loro turno per le analisi, il day hospital o altro, nell’apparente assoluta indifferenza. Una grande confusione, un via vai disordinato e chiassoso, mentre nella stanza accanto si consuma dolore o qualcun altro sta andando via. E poi c’è il deserto delle domeniche, dei giorni di festa in cui non passa un medico neanche a coprirlo d’oro, a parte qualche giovane specializzando che al massimo potrebbe darti un’aspirina.
Parliamo di un reparto oncologico, di un’emergenza continuativa non solo a livello medico ma anche psicologico. Il dolore, le ansie, le paure, le speranze di un reparto del genere non possono conoscere giorni di festa né avere domeniche! Resto lì impietrito, per giornate intere, lunghissime, interminabili, respirando dolore nella speranza che sia tutto solo un brutto sogno, ma non riesco a svegliarmi, l’incubo continua e le scene si ripetono, ogni giorno uguali e cadenzate.
Ho lasciato quella sedia del reparto di oncologia e di medicina interna “Guido Baccelli” del policlinico di Bari. Il professore dopo averci detto con la freddezza di un iceberg che non c’era più nulla da fare, non si è mai più visto per settimane intere. Non un passaggio nella stanza, una parola di conforto, l’assenza assoluta di fronte al dramma dell’attesa. Solo alla fine Stefania Longo, una dottoressa gentile che sembrava capitata lì per caso, per quanto il suo sorriso fosse contrastante con la “non accoglienza” di tutto il reparto, ha avuto per noi due parole di conforto e un sorriso, come fosse una lieve carezza su tanto dolore.
Per il resto è stato percorrere un deserto, un lunghissimo tunnel buio, un labirinto dove si erano smarrite tutta l’umanità e la sensibilità di cui avresti bisogno in momenti tanto drammatici. Ti chiedi se sia sempre stato così o è il mondo che drammaticamente cambia. Non c’è una risposta, e questa triste storia finisce qui.
Non so se fosse un centro all’avanguardia, come il primario professore con grande enfasi aveva pavoneggiato al telefono – ma avrà dato almeno un’occhiata alle cartelle cliniche? – facendoci grandi promesse di cura e ripresa, sollecitando il ricovero addirittura il venerdì santo nella sua “perla” di reparto, illudendoci con un’approssimazione che con la salute non può essere consentita: non posso saperlo perché sono rimaste solo promesse e mia suocera ci ha lasciati dopo molte settimane di un penoso quanto mai inutile parcheggio e calvario in un centro all’avanguardia, sì, ma solo in mala umanità.

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