May You Live In Interesting Times (Possa tu vivere in tempi interessanti) è il titolo della 58a Biennale d’Arte veneziana adottato dal direttore di questa edizione, l’anglo-americano Ralph Rugoff, che dal 2006 dirige la londinese Hayward Gallery. I “tempi interessanti” sarebbero quelli di instabilità e sgomento, secondo un antico anatema cinese, ma in effetti si tratta di quella che oggi chiamiamo fake news, pur citata più volte all’uopo in dibattiti pubblici. Parole che tuttavia hanno ispirato Rugoff per introdurre a un’analisi dei tempi attuali e sollecitare gli artisti a coniugare il loro processo creativo a realtà interconnesse.
Nella mostra internazionale da lui curata, al Padiglione centrale ai Giardini e all’Arsenale, i pochi i nomi noti e una cernita tra le proposte più indicative hanno prodotto una maggioranza di “not white”, con predominanza asiatica, comprendente 38 artiste e 35 artisti (oltre a 3 genderqueer e 3 collettivi): le dame superano dunque i cavalieri, non per una sorta di par condicio ma per maggiore interesse, ha chiarito Rugoff.
Né altra né questa
Dominano le donne anche al Padiglione Italia, alle Tese delle Vergini in Arsenale, nella mostra Né altra Né questa: la sfida al Labirinto, per la regia del critico quarantaquattrenne Milovan Farronato – piacentino in movimento tra Milano e Londra – che a rappresentare l’Italia ha scelto Liliana Moro (Milano, 1961), Enrico David (Ancona, 1966) e Chiara Fumai (Roma, 1978-Bari, 2017). Artisti differenti per formazione, in ascesa nel panorama internazionale e ben inglobati nel sistema dell’arte col plauso di critici e galleristi. Avvalendosi di un team operativo in prevalenza femminile, Farronato ha affermato di aver voluto porre le opere in dialogo-confronto, per analogie d’intenti ed evidenti opposizioni, piuttosto che isolare i singoli autori in sezioni separate.
Merita soffermarsi sul doppio titolo. L’oscuro significato della negazione ripetuta, “Né altra né questa”, tende a provocare lo sconcerto di trovarsi in un cul-de-sac. “La sfida al labirinto” fa invece riferimento all’omonimo titolo del saggio di Italo Calvino pubblicato sulla rivista letteraria Menabò nel 1962. In esso lo scrittore, prendendo il labirinto quale metafora della condizione dell’uomo, afferma che è possibile scoprire il proprio filo di Arianna solo attraverso “un ordine mentale abbastanza solido per contenere il disordine”. La deduzione è dunque immediata: dal caos ci può essere una via di uscita.
Tema altresì caro allo scrittore argentino Jorge Luis Borges (1899-1986), del quale per Farronato, trovandosi a operare a Venezia, è stato ovvio citare il giardino-labirinto che ne riproduce il nome: costruito proprio qui nel 2011 – a venticinque anni dalla morte – in uno spiazzo adiacente alla biblioteca dell’isola di San Giorgio, traendone l’ispirazione dal suo racconto Il giardino dei sentieri che si biforcano del 1941, in cui le parole stesse diventano un labirinto. Un omaggio al poeta che tanto amava quella “Venecia” che egli ha descritto “de cristal y crepúsculo”.

Labirintica è quindi la suddivisone dei quasi 2000 mq del Padiglione Italia, accessibili indifferentemente da uno dei due ingressi-uscite di pari funzionalità per incontrare opere collocate in stanzette cieche, lungo corridoi che s’intersecano, in spazi delimitati da portoni o tendoni o arcate di varie dimensioni. Pareti-specchio amplificano le spazialità, ma riflettono anche l’immagine del visitatore, con rimando – dice il curatore – a Umberto Eco, al suo concetto di “opera aperta”, così permettendo interazioni multiple mediate dal fruitore.
E infatti il percorso è volutamente privo di riferimenti spazio-temporali, per non indurre un’unica logica di lettura e lasciare al visitatore la decisione di come muoversi, affinché sia egli stesso a determinare una relazione tra i diversi lavori. Che gli può capitare di incrociare una o più volte, secondo come orienta i propri passi; non gli sarà comunque complicato percorrere questo labirinto di notevole politezza architettonica e per niente intricato.

Photo Delfino Sisto Legnani e Marco Cappelletti, Courtesy DGAAP-MiBAC
Gli artisti
Non si fatica nemmeno a riconoscere la paternità delle singole opere, tale è dissimile il linguaggio dei tre artisti.
È un progetto presentato in anteprima This Last Line Cannot be Translated di Chiara Fumai, predisposto nel 2017, che Farronato ha ricostruito fedelmente su base documentaria lasciata dall’artista. Un murale di elegante grafismo cui oggi si guarda come a un testamento di colei che ha concluso il proprio viaggio, in un’ultima, meditata e solitaria performance, impiccandosi in una galleria di Bari – in quel momento deserta – dov’era in corso una panoramica sul suo lavoro. Gesto estremo, per lasciare di sé il definitivo passaggio di testimone.
Il suo grande murale si sviluppa in più segmenti del labirinto con vocaboli tracciati in nero, che conducono ad aspetti cognitivi diversi, e – quale sua cifra metodica – legati tra loro da un tratto continuo, che qui definisce i confini di una sorta di mappa geografica in cui alloggiano disegni-simbolo e parole criptiche.
In una stanzetta si sente la registrazione Thunder, Perfect Mind (2017), con la voce di Fumai che recita alcuni frammenti di un antico poema, incentrato su una sibillina figura femminile, transitando da un timbro squillante al più cupo. Questa sua voce ricorda che l’artista è balzata sulla scena internazionale dopo aver vinto il Premio Furla nel 2013 con la performance in cui leggeva il manifesto femminista elaborato nel 1967 da Valerie Solanas, passata alla storia per aver sparato ad Andy Warhol. Della sua vocalità ha fatto un elemento portante delle azioni ideate per decostruire il fallocentrismo culturale.
Tra rivisitazione, finzione e teatralità, ha evocato con travestimenti e citazioni di riferimento le diversissime personalità di donne dell’Otto-Novecento per costruire la propria d’artista. Tra esse la medium Eusapia Palladino, la circense Annie Jones la barbuta, la teosofa Madame Blavatsky, la rivoluzionaria Rosa Luxemburg, la terrorista Ulrike Meinhof, la critica d’arte e femminista massima Carla Lonzi. Poste sotto l’etichetta di “provocazioni” queste esibizioni sono state definite dalla critica “di sbalorditiva drammaticità”. Resta discutibile però che la sua ricerca si sia concentrata su figure del passato piuttosto che del suo presente.

Enrico David, scultura senza titolo, 2015
Photo Delfino Sisto Legnani e Marco Cappelletti, Courtesy DGAAP-MiBAC
Di tutt’altra tempra l’inventiva di Liliana Moro, che si apprezza per la circolarità armonica del pensiero creativo tra oggetti (d’uso comune o industriali), sculture, suono e spazio, con attenzione a compenetrazioni coloristiche e a effetti di luminosità. Il suo fare sagace procede tramite metafore la cui drammaticità non è mai ridondante: si veda, per esempio, La passeggiata (1988), le cui orme sono materializzate in sagome di metallo legate l’una all’altra con catene, simbolo di umane costrizioni; o Avvinghiatissimi (1992), evocante una lacerazione amorosa, con due materassi sovrapposti in verticale (letto matrimoniale che diventa singolo) e legati con cinghie rosse a formare una croce, messi contro una parete e corredati ai lati da due piccole casse acustiche collegate a un walkman da cui escono le struggenti note del tango Sur: Regreso al Amor di Astor Piazzolla.
Tra i lavori recenti c’è l’installazione Quattro stagioni (2014-2019), posta in un piccolo anfiteatro con variopinti ombrelloni sovrastanti rustici tavoli gialli, scena che sembra preludere a una merenda di popolare convivialità, mentre, lì accanto, un altoparlante da esterno a tromba, intitolato “…senza fine”, diffonde il canto Bella ciao in – lettori, stupitevi! – quindici lingue. Si legge in brossure “Inno alla libertà contro un oppressore, adottato dai più disparati contesti internazionali”. Montaggio del 2010, che oggi acquisisce attualità politica dopo le polemiche sorte nella ricorrenza di quest’ultimo 25 aprile.

Pur essendo meno enigmatiche, hanno un maggiore impatto visivo le installazioni e le sculture, perlopiù recenti, di Enrico David, londinese di adozione. Con materiali i più vari e con un lessico eterogeneo egli elabora nella sua pratica artistica memorie personali, talora con affacci su esperienze artistiche passate, come in Tutto il resto spegnere III (2019), ambiente in cui ha ricreato la propria stanza da letto da adolescente inserendovi l’immagine tridimensionale di se stesso visto di spalle con i pantaloni calati in sospetto atto di rapporto sessuale con un manichino: scena che riproduce il noto foto-collage di Dora Maar Vieille femme et enfant del 1935.
Le sue sculture antropomorfe e pluricefale, instabili nello sviluppo verticale, aberranti e ambigue, appaiono quali creature irrisolte, in ininterrotta fase di mutazione. D’altronde, per sua ammissione, la ricerca che conduce origina dalle umane contraddizioni dettate da stati psichici e fisici: “cercando di venire a patti con la nostra natura frammentata”.

Il perdersi non esiste?
Tra il titolo e le opere di questa mostra non si coglie un nesso empatico. Si ha l’impressione che esse siano funzionali alla struttura architettonica del labirinto – troppo perfettino – arredandolo. Alla fine prevale il pensiero-labirinto del curatore, che dichiara
non esiste il perdersi, ma solo il tornare sui propri passi, ed è legittimo: regredire non significa peggiorare. Godete il senso di un tempo dilatato e non abbiate ansia di dover vedere e leggere tutto. Ogni strada si ricongiunge a un’altra, ogni scelta è giusta, non ne esiste una sbagliata.
In altre parole la sua personalità domina le poetiche dei tre artisti, che pure si sono espressi in passato in modo tagliente. Non essendo qui incisivi, viene da pensare che a rappresentare l’Italia sarebbero potuti essere altri.
Del “potenziale dell’arte di indagare cose di cui non siamo già a conoscenza”, auspicato da Ralph Rugoff per questa Biennale, nel Padiglione Italia di fatto non si trova traccia.


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