Solo cinque anni fa, poche settimane dopo quel fatidico 4 giugno del 2014, in verità qualcuno ci aveva pur pensato a proporre gli stati generali cittadini in cui tutte le associazioni e le forze in campo potessero discutere dei destini di una città travolta dalla sventura. La cosa allora riscosse una certa partecipazione da parte delle associazioni convenute all’Osteria Plip di Favaro, moderatrice Alda Vanzan del Gazzettino. Ma quel che chiaramente emerse fu che nella Venezia d’acqua e di terraferma ciascuno in fondo voleva andar ancora per conto proprio. I tempi, col senno di poi non erano ancora maturi.
Se la retata storica ebbe il merito di colpire l’intreccio malavitoso tra affari e politica, con l’effetto di metter fine alla lunga teoria dei governi di un centrosinistra sempre più esangue e del resto solo sfiorato dallo scandalo Mose, essa ha segnato uno spartiacque profondo, una svolta epocale che all’inizio forse non si poté non sottovalutare.

Non si spiegherebbe altrimenti la sorpresa con cui la sinistra più refrattaria a capire, non tutta a dire il vero, visse l’inarrestabile ascesa di un outsider destinato a sparigliare le carte e a modificare radicalmente il modo di far politica in una città come Venezia, culla del concetto stesso di partecipazione di cui si menava vanto, imponendo un modello di governo che della stessa è la negazione e ruota attorno alla sua persona.
Cinque anni sono tanti, per la politica e per la vita di una città. Le molte speranze nate allora col tempo sono andate ridimensionandosi, si sono trasformate, mentre i problemi paiono sempre gli stessi da quarant’anni a questa parte.
L’aggravarsi delle problematiche ha generato un conseguente impoverimento del tessuto sociale, e ciò sembrerebbe fatale per la vitalità di Venezia. Nulla di più falso, se è vero che quel che sta accadendo dimostra invece il contrario, come se la città sofferente, o il Paese, che rischia la sua sparizione negli anni a venire, avesse deciso di raccogliere le sue forze e reagire.
Se dalla partecipazione frustrata deriva in buona parte la reazione di chi si sente escluso, un peso è esercitato dalla più generale crisi della politica, espressione di un leaderismo esasperato, capace di ammaliare e trascinare, ma con esiti sempre più effimeri. Ne consegue che il cittadino, quando non cede all’apatia e alla rassegnazione, sembra essere spinto alla ricerca di canali a lui più vicini e praticabili, come il volontariato o il far parte di un’associazione, capaci di portare quelle immediate risposte, che la lontananza della politica e la liquidità della forma partito non sono più in grado di assicurare.
È stata per questo una grande sorpresa che più di quattrocento persone abbiano riempito il padiglione Pegaso al Vega sabato scorso, un luogo a metà tra la città storica e le promesse mancate, se vediamo a com’è ridotto il centro mestrino, di una terraferma interprete di un contemporaneo che pare assumere i connotati di una chimera. Facce per lo più conosciute, il vasto campionario della politica di tempi lontani e recenti, si sono cimentate per quattro ore con un nuovo modo di parlarsi e di decidere, utilizzando i propri smartphone per poter interagire in una discussione guidata.

Distribuiti nei venti affollatissimi tavoli in cui spiccavano, come rari bucaneve a fine inverno, i volti dei pochi giovani capitati da chissà dove, hanno affrontato con il metodo dell’electronic town meeting, temi quali i beni comuni, la vivibilità e le pratiche di democrazia. Tuttavia, se c’è una cosa di cui sorprendersi, se solo ritorniamo a cinque anni fa, è che a rispondere all’appello sono accorse associazioni che allora avrebbero rifiutato di sedersi a uno stesso tavolo, e che solo l’urgenza delle cose ha costretto a fare un passo indietro, nella consapevolezza che i tempi supplementari stanno davvero per finire, finalmente consci, quindi, della propria insufficienza.
Va dato atto agli organizzatori di Un’altra città possibile di aver saputo esprimere un lavoro il cui esito è stato la connessione delle molte realtà presenti nel territorio, creando una rete con un modello di comunicazione che si è persino distinto per una dose di freschezza e di spirito. Una ventata di novità, se si pensa alla noiosa comunicazione della politica, di maggioranza e dell’opposizione, ripetitive e incapaci di scaldare i cuori. Presenti in massa i rappresentanti di quello che rimane dei partiti di sinistra, a volte imbarazzati e nascostamente a disagio per quanto d’inusitato accadeva, increduli e forse persino invidiosi della capacità di mobilitazione che è apparsa ai loro occhi.
Impegnati nel vizio, mai davvero abbandonato, di tradurne il potenziale peso nell’urna, a interrogarsi sulla necessità delle leadership, magari sperando, nel segreto dei loro cuori, di metterci alla fine il cappello, a parlare della replicabilità dei teoremi padovani con alleanze tra Pd e civiche, per lo più non hanno colto il fenomeno che davanti a loro andava crescendo con allegria. E seppur materialmente presenti, schiavi di un’idea della politica che li condanna inesorabilmente all’ininfluenza, ci è parso difficile cogliere se abbiano saputo dare ascolto, e capire, a una realtà che muove i primi passi verso il superamento dei limiti di cui soffre ormai la nostra prassi democratica.

Una crisi profonda di cui, invece, la gente che si è raccolta a discutere è parsa consapevole, accollandosi il compito di soddisfare al bisogno di una democrazia orizzontale che riavvicini la gente alla politica. In primo luogo scelta del bene comune sull’interesse particolare. Una realtà di cui l’incontro di sabato è stato il primo momento, e che potrebbe col tempo rappresentare un laboratorio esportabile oltre le mura cittadine, capace di discutere e decidere secondo criteri di democrazia diretta trasparenti. Nulla a che spartire con le pantomime sulla democrazia diretta della Casaleggio Associati.
Tra i tre temi discussi nell’incontro, ci è parso di grande importanza quello che riguarda la creazione di un’organizzazione orizzontale di democrazia, capace lentamente, col suo espandersi e rafforzarsi, di accerchiare il potere per influenzarlo, fino a porsi il problema vero e proprio del governo della città. Per il momento l’obiettivo rimane comunque la costruzione di relazioni che accrescano la coesione e il senso di cittadinanza, da raggiungere anche attraverso campagne mirate per sensibilizzare i cittadini e coinvolgerli nella proposta.
Se Un’altra città possibile saprà continuare nei prossimi mesi con gli incontri tematici, sarà inevitabile che ne esca un programma di governo e quindi l’obiettivo di come attuarlo, assieme a quello, non secondario, della leadership. Per il momento, è stato da tanti ribadito, in una realtà come quella cittadina soggetta a una crisi che potrebbe essere irreversibile, il primo obiettivo è consolidare il concetto di appartenenza a una città, di cui non a caso si vuole definire i valori. Qualche spirito critico sabato ha giudicato troppo pratici i temi discussi, di modo che alla fine non ne uscirà nulla più di quanto già le stesse associazioni non abbiano nel loro bagaglio.
Critica forse ingenerosa, che di sicuro sottovaluta il valore aggiunto indiscusso che a sedersi allo stesso tavolo ci sia gente che forse questa volta ha capito che la posta in gioco è seria e non riguarda solo il destino dell’associazione che rappresenta. Vale forse per tutti la convinzione di aver fatto un passo indietro, nella consapevolezza che era l’unica garanzia per progredire, questa volta sì per l’ottenimento del bene comune che è la sopravvivenza.
I limiti sono ancora molti, ed enorme il lavoro di chi nelle prossime settimane s’impegnerà nella lunga attività di costruzione della rete, che al Vega era rappresentata per un sessanta per cento dalla città d’acqua e solo per un restante quaranta per cento dalla terraferma. Un gap da colmare, non fosse altro per il peso demografico, e quindi elettorale, che Mestre rappresenta.

Un obiettivo intermedio sarà di certo la discussione che impegnerà i prossimi appuntamenti, dove a discutere di cose concrete, saranno associazioni di natura e ispirazione politica anche diversa, che hanno capito come la strada intrapresa sia quella per ottenere la centralità della cittadinanza, spogliata da scelte politiche e economiche che da troppo tempo passano sopra la sua testa. Il riconoscimento quindi del suo ruolo portatore di un interesse generale che la politica ha troppo spesso escluso, inseguendo il rapporto con le categorie economiche come se esse rappresentassero il tutto, e non un interesse di volta in volta particolare. E che a distanza di anni dalla sconfitta del 2015, desta ancora sorpresa in una certa sinistra che nemmeno si è accorta di aver favorito scelte che hanno penalizzato la città per anni, che l’ha ricambiata voltandole le spalle.
In una realtà come Venezia, dove per gli interessi economici in ballo le categorie hanno sempre esercitato una grande influenza sulle scelte delle amministrazioni che si sono succedute, dove i propri affari sono spacciati come progresso e benessere comune, si è perso spesso il senso dello sviluppo nell’interesse generale, e la politica si è districata a volte in un groviglio di relazioni che definire poco trasparente è un eufemismo.
Ha pagato abbondantemente la sinistra dopo che è stata a lungo al governo cittadino senza aver saputo esprimere un’idea di città compatibile, determinando la causa prima della sua rovina. Rischia di pagare il conto definitivo ora la città con la sua stessa esistenza, sottoposta com’è a un pensiero economico unico dominante, il cui progredire è di per sé un valore al quale non c’è freno. Forse percorsi come quello iniziato al Vega, di cui sarebbe sciocco nascondersi le difficoltà, possono restituirci un senso e un ruolo. Soprattutto il gusto di prendere nuovamente la parola.
Il servizio fotografico è di Andrea Merola

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