È L’arte del desiderio il tema della mostra aperta al Museo Nazionale Salce di Treviso fino al 16 ottobre e dedicata ai manifesti del triestino Leopoldo Metlicovitz (1868-1944), che apre un nuovo capitolo dopo il ciclo Illustri Persuasioni, comprendente le rassegne La Belle Époque, Tra le due guerre e Verso il boom 1950-1962, programmato dall’allora direttrice Marta Mazza, le cui funzioni sono ora esplicate da Daniele Ferrara, direttore del Polo Museale del Veneto.
Concittadino di Marcello Dudovich – suo esuberante allievo e collega, più giovane di dieci anni, al quale il museo ha dedicato una sala – è figlio dell’ottico meccanico di origine dalmata Leopoldo Metlicovich, cognome che lui adatta, appena può, all’atmosfera culturale della sua città, per lunghi anni ancora parte dell’impero austriaco, sostituendo la finale slava “ch” con la tedesca “tz”.
Quattordicenne, entra come apprendista litografo in uno stabilimento tipolitografico di Udine, dove si forma acquisendo conoscenze teoriche e abilità operative che compensano gli insegnamenti scolastici mai avuti; e cinque o sei anni dopo è assunto dalla fabbrica milanese di “Carte e Lastre per fotografia e Radiofotografia Fratelli Tensi”. Da lì passa come litografo-cromista alle Officine Ricordi, di cui verso il 1892, ventiquattrenne, diventa direttore tecnico continuando però a trasportare su pietra litografica i dipinti di artisti che nemmeno conosce, lavoro tipico dei suoi dipendenti. Gli è vicino come direttore artistico un grande cartellonista tedesco, Adolf Hohenstein, che lo invita a realizzare lui stesso dei disegni per le affiche.
Prima della fine del secolo è già l’apprezzato pubblicitario cui l’affermata impresa sartoriale napoletana dei Mele commissiona numerosi manifesti. Inoltre, melomane convinto, illustra i giovani astri dell’opera italiana; e realizza per Casa Ricordi le copertine del periodico Musica e musicisti, chiamato in seguito Ars et labor, illustra libretti, spartiti, riviste e disegna cartoline.
Il fatto che contrassegni i suoi lavori con la sigla elaborata delle sue iniziali – qui riportata – al posto della firma, è attribuito alla sua indole riservata.

Nel 1910 Sposa Elvira Lazzaroni, da cui ha due figli, Roberto e Leopolda; le sarà fedele per la vita, differenziandosi radicalmente dal citato allievo-collega. Acquista una villa in Brianza, a Ponte Lambro, ma continua a lavorare a Milano; ed è comprensibile che ciò lo porti a rallentare la produzione cartellonistica, fino ad abbandonare la professione grazie alla quale, e solo grazie a quella, è celebre ancor oggi.

Si trasforma, in pittore di paesaggi e ritratti; e in questa veste trascorre i successivi cinque lustri di vita: più di quanti durante i quali è stato uno dei massimi interpreti del “modernismo” internazionale, diffuso – a seconda del luogo d’origine – con i nomi di Art Nouveau, Modern Style, Jugendstil e, da noi, Liberty.
Da cartellonista, qualsiasi cosa abbia disegnato, dipinto e tradotto in cromolitografia – una figura, un’automobile, una bicicletta, un profumo, senza sfondo o inquadrati in una veduta da cartolina – appartiene al livello più alto della grafica pubblicitaria italiana. Nulla di simile si può dire dei suoi quadri.
Per lui tutto si conclude nel 1944, tre anni dopo Elvira.

Il rapporto che il collezionista trevigiano, “ragionier” Nando Salce – di dieci anni più giovane, quindi coetaneo di Dudovich – instaura con le aziende committenti dei suoi lavori o direttamente con lui, è improntato sulla consapevolezza del valore di tali opere, che egli acquista man mano che vengono prodotte. La passione con cui le accumula è tale da portarlo persino a privarsene pur di promuoverne la diffusione, cedendole per esempio a Giovanni Ricordi che gliele chiede; e pur soffrendo per la perdita, preferisce saperle in una collezione così nota.
Lettere e documenti, conservati nell’archivio del Museo, hanno dato un sostanziale aiuto agli organizzatori di questa retrospettive e di quella dell’anno scorso a Trieste, divisa tra i musei civici Revoltella e “Carlo Schmidl” per celebrare i centocinquant’anni dalla nascita dell’artista.
La Mostra
Sono una sessantina le sue opere esposte, sulle circa duecento della collezione: quante il museo può presentare in contemporanea. Il percorso espositivo comincia dal salone del terzo piano del palazzo, adiacente alla chiesa di San Giacomo e impropriamente detto dei Templari, che storicamente costituiva la “Commenda Gerosolimitana dei Cavalieri di San Giovanni”. Decorato con affreschi quattrocenteschi e dedicato a Dudovich, ha dimensioni maggiori rispetto alle altre due sale, site nel confinante edificio ottocentesca detto della “Commenda di Malta”.

Ventotto lavori suddivisi in tre sezioni (“Gli esordi milanesi”, “Opera e operetta” e “Ars et labor”) si dipanano lungo la parete a stecche lignee che s’incurva lungo il perimetro, nonché su due prismi triangolari centrali e nella bacheca posta tra i due, mentre opere minori sono disposte su un leggio a muro definito “Linea del tempo”. Spiccano quelli per i grandi magazzini napoletani dei fratelli Mele.

Tra le opere liriche e le operette si trovano i cartelloni per il debutto delle pucciniane Madama Butterfly e Turandot e della Conchita di Zandonai.
Su uno dei due prismi triangolari c’è il Sogno di un valzer che non pubblicizza alcun prodotto o iniziativa: è infatti un documento autobiografico unico, perché ritrae il Melicovitz stesso che danza con la moglie Elvira, stringendola amorevolmente, al suono di una violinista dai colori sfumati in secondo piano. Non è datato ma archiviato tra i documenti del 1910, anno del loro matrimonio. Qui il significato del titolo della mostra, L’arte del desiderio, si esprime nella forma più pura.
Sta all’estremo opposto lo spirito di Il ragno azzurro, che raffigura la protagonista dell’omonima operetta del triestino Alberto Randegger, pubblicato per Casa Ricordi nel 1916, in piena guerra mondiale. Esposti sul medesimo “Prisma 2”, contrappongono quindi la soavità del primo allo scatenato clima ludico dell’altro.

“Ars et labor” (motto di Casa Ricordi e nuovo titolo della rivista “Musica e musicisti” dopo il 1906) è la parte di grafica minore della mostra, allineata sulla “Linea del tempo”, con copertine e inserti di quotidiani, come la figura di una graziosa venditrice di giornali pubblicata per e su La Sera.
Uscendo dalla sala si notano due “réclame” – così si chiamavano allora – per i fratelli profumieri parigini Sauzé, datate 1898 e 1911, che sembrano fatte apposta per evidenziare i cambiamenti stilistici legati alla maturazione dell’artista. Fleur de mousse, con la compunta aria estatica dell’effigiata, richiama il languido sentimentalismo fin-de-siècle, quando la nudità corporea aspirava a essere simbolo di purezza, mentre l’atteggiamento tendenzialmente lascivo della Liane fleurie, dal sorriso compiaciuto e dagli occhi bistrati che ti fissano, risente degli scossoni espressionisti del primo decennio d’arte ormai passato.

Le altre due sale, dedicate a Erberto Carboni e Franco Grignani nel contiguo palazzo ottocentesco, sviluppando le sezioni “Borghesia alla moda”, “Al passo con il progresso”, “I manifesti dell’ultima stagione” e “Nostalgia del paesaggio”.
L’evento eccezionale dell’inaugurazione della Galleria del Sempione è celebrato, nella Carboni, dal manifesto che aveva fatto vincere a Metlicovitz il premio dell’Esposizione Internazionale di Milano del 1906, del quale però la Collezione Salce possiede solo la prova di stampa senza scritte e con i colori smunti; sulla “Linea del tempo”, tuttavia, è esposta una riproduzione dell’altro.

Nella Grignani, hanno un significato particolare le vedute di Zara e Abbazia ancora italiane, e il romantico colpo d’occhio sui monti per il trenino che portava dal capoluogo piemontese a Cirié Lanzo.

Il manifesto che porta a termine il viaggio nel mondo di Metlicovitz pubblicizza una marca di impermeabili con una scritta che cita in prima riga i Gabardines, ma sotto, ahinoi, i “Trenck coat”. “Trenck” non “trench”! Il cartellonista, ligio al proprio dovere professionale, lo ha riportato come il produttore deve avergli detto.

NELL’IMMAGINE D’APERTURA la Sala Dudovich, con i manifesti per Madama Butterfly e Turandot di Puccini e Conchita di Zandonai

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