Il dolore di Pedro e il sarcasmo di Marco

Nelle sale “Dolor y gloria” di Almodóvar e “Il traditore” di Bellocchio. Dal Festival di Cannes dove vince il film coreano “Il parassita”, che forse un giorno vedremo (se ce lo faranno vedere).
ROBERTO ELLERO
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Ubi minor, maior cessat. Avete letto bene. E cambiando l’ordine dei fattori altro che se il prodotto cambia. Festival di Cannes, settantaduesima edizione: in apertura gli zombi di Jim Jarmusch (per carità, pur sempre d’autore), in chiusura Sylvester Stallone, giunto sulla Croisette per presenziare alla versione restaurata del primo Rambo (1983) e per strombazzare l’imminente arrivo del quinto episodio della saga. Finalmente, ne sentivamo proprio il bisogno… 

Alla vigilia del palmarès, i pronostici tifavano per Almodóvar, Bellocchio, persino per il Tarantino dello spernacchiato (dai più) C’era una volta… a Hollywood. E invece, eccolo il minor:  Parasite del coreano Bong Joon-ho, a riprova – una volta di più – che le giurie dei grandi festival internazionali, se e quando possono, premiano l’eccentrico, il diverso, il minore appunto, per il piacere – che una volta era dei critici, nel frattempo scomparsi dalle giurie e fra un po’ anche dai giornali – di laureare l’ignoto piuttosto che il risaputo, il ruvido al posto del patinato, l’insolito invece che l’affermato. E qui, nel coreano vincitore, udite udite, ricompare persino la vecchia cara lotta di classe, data per estinta in Occidente. Chapeau, compañero Iñarritu! Sul restante repertorio dei premi, pareri volentieri discordi: un classico.

Lo  vedremo mai, Il parassita? Forse sì, se non costa troppo: una Palma d’oro è pur sempre un valore aggiunto, in tutti i sensi. Pare l’abbia comprato l’Academy2, anche se un conto è distribuire e un altro è programmare. Mestieri differenti, benché nella concentrazione dei poteri in atto presso quel che resta del sistema-sala le promiscuità e le interferenze non manchino. Compatte le categorie dell’esercizio nel prendersela con Netflix e le contemporanee sul piccolo schermo, tanto da penalizzare ampiamente in sala un film come Roma  di Alfonso Cuarón, Leone d’oro all’ultima Mostra di Venezia e visibilmente pensato/girato per il grande schermo. Assai più silenti o remissive quando si tratta di contrastare il blockbooking che continua ad imperversare, più o meno mascherato. 

Per chi non è del mestiere, trattasi della pratica – assai diffusa presso i distributori più attrezzati e i loro mandatari in sede di noleggio – di imporre agli esercenti titoli inadatti e persino gli scarti di listino prima di consentire la programmazione dei titoli più attesi. Con il risultato di mettere all’angolo, far slittare e relegare alla doppia programmazione o ai feriali i film dei distributori indipendenti, marcatamente d’autore e senza protezione, magari capolavori ma orfani di padrinaggio. Minores, per l’appunto. Di recente, citando alla rinfusa, fra uno slalom e l’altro, abbiamo  così (intra)visto l’islandese La donna elettrica e il palestinese Sarah & Saleem, l’israeliano Tutti pazzi a Tel Aviv e persino il cipriota Torna a casa, Jimi, che con quel titolo (in originale Smuggling Hendrix) sembrava un film per ragazzi ed invece era molto di più: uno sguardo anche politico e sociale sulla martoriata, più che mai anacronistica ma sempre rigida divisione dell’isola di Cipro fra greci e turchi. Non saranno capolavori, ma certamente una valida alternativa di visione alla valanga di commediole nazionali sempre uguali e ai seriali d’oltreoceano, che fra sequel, prequel, remake live action e reboot  mandano praticamente sugli schermi i cloni degli stessi film.

Non c’eravamo, a Cannes, e quel che sappiamo l’abbiamo appreso dai giornali. Edizione tutt’altro che memorabile, è parso di capire, come accade sempre più spesso anche ai grandi festival, che risentono della stagnazione culturale oggi imperante. Ciò che abbiamo visto – Almodóvar e Bellocchio – forse  risente in qualche modo di quella stessa stagnazione, sublimandone però gli effetti in chiave autoriale. E dunque stile, personalità, abilità narrativa, sincerità.  

Antonio Banderas e Pedro Aldómovar

Pedro Almodóvar, che faticava di recente a ritrovare lo smalto di un tempo, questa volta lo smalto lo mette proprio da parte, producendosi con Dolor y gloria in un sofferto ma forse necessario viaggio interiore che elabora, una volta per tutte, il lutto per la spavalda leggerezza perduta: quel cinema della movida, della spregiudicatezza  camp (avrebbe detto Susan Sontag) irrimediabilmente legato ad un’altra età della propria esistenza e della storia, almeno culturale. Diciamo la transizione dal franchismo alla democrazia, con il caudillo che murio en su cama, morì nel suo letto, come s’usa dire, dopo lunga dittatura e con tutto quello che ha comportato, nel bene e nel male. I colorati, quasi psichedelici titoli di testa non traggano in inganno, come pure le simpatiche animazioni che danno conto dei viaggi da una parte all’altra della Spagna, e poi del mondo, intrapresi dal regista Salvador Mallo all’apice della carriera. Con il suo capolavoro di allora Sabor, ora  restaurato e nuovamente in tournée nelle sale, in presenza dell’autore, vanamente atteso dal vivo: malattie, stati depressivi, inedia interiore. 

Se era quella, la gloria – Sabor, il pubblico, il successo – ora Salvador non sa che farsene e avverte soprattutto il dolore: dal busto vistosamente cicatrizzato con cui si presenta l’alter ego Antonio Banderas (premio per il miglior attore al festival, dove peraltro tutto ciò che non è Palma d’oro odora di consolazione) all’intervento chirurgico finale cui il personaggio dovrà sottoporsi per ovviare ad un’altra delle sue magagne. E con quel che ha passato davvero Banderas, tre operazioni a cuore aperto di recente, c’è da credere che nessun metodo Stanislavskij  sarebbe valso a renderlo così autentico. 

Quanto a quel che va accadendo nel film e nell’oggi, sembrano parimenti fuochi di paglia le rimpatriate con l’attore feticcio di un tempo, che ancora pratica le canne di eroina (“ma adesso le portano a domicilio, come la pizza”) e l’appassionato  bacio gay – fuori tempo massimo – con il compagno di molti anni prima, di passaggio per qualche giorno a Madrid, da tempo etero più o meno felice, con figli, a Buenos Aires. Ma la dimensione più pregnante è costituita dai ricordi: l’infanzia povera nella grotta di un villaggio sperduto, i turbamenti del primo nudo maschile, un padre pressoché inesistente, l’adolescenza obbligata dai preti in collegio (assenti i pesanti riferimenti pedofili che motivavano La mala educación) e, sopra ogni altra cosa, la madre (Penelope Cruz), amata, sempre presente, specchio della vecchia Spagna rurale, devota e dunque reticente, almeno quanto il figlio. L’eterno senso di colpa per non essere stato quel che doveva essere. Tutto è perduto? Forse no: fra le carte che intasano i cassetti di Salvador c’è un testo che suona Adiccion, che in spagnolo, guarda caso, sta per dipendenza: lo fa leggere all’amico-nemico attore, anch’egli messo non troppo bene, che se ne impossessa, portandolo in scena con successo. E vale non solo l’accoglienza ma l’intensità della rappresentazione, del vissuto rievocato, della fantasia ritrovata. Finché c’è racconto c’è speranza.

Pier Francesco Favino in Il traditore di Marco Bellocchio

Anche Tommaso Buscetta, alias Il traditore di Marco Bellocchio, aveva sempre sognato di morire nel suo letto. Riuscendoci infine, a differenza del suo mentore giudiziario Falcone, volato sulle bombe di Capaci. Probabilmente anche nel film di Bellocchio (il ripudio della famiglia borghese negli anni del furore contestatario, poi l’adesione maoista, la scoperta delle virtù psicoanalitiche di Fagioli e infine la serenità di una vecchiaia ancora abbondantemente fertile e “giovanile”) c’è qualcosa di autobiografico, ma nelle pieghe di ragionamenti troppo cifrati per arrischiare congetture.

E allora gli inferi di Cosa Nostra, negli anni in cui la cupola passava dai palermitani ai corleonesi, dal contrabbando di sigarette ai traffici di droga, dall’onorata società delle origini agli intrecci politici che portano, come ogni strada, a Roma. O almeno questa è la vulgata preferita da Buscetta, che milita nella vecchia guardia, non sentendosi affatto un “traditore” quando comincia a parlare, inchiodando le nuove leve, capitanate da Totò Riina, alle loro responsabilità. Pier Francesco Favino è talmente efficace nel ruolo del “soldato” Buscetta da estorcere più di una simpatia. Cummannari è megghiu ca futtiri ? Ma neanche per sogno. Tomasino è un gaudente, passa di moglie in moglie, figliando con piacere (anche se alcuni di quei figli faranno, per colpa sua, una gran  brutta fine), se la spassa a Rio de Janeiro prima di vuotare il sacco e si fa dare un sacco di soldi dallo Stato per rendere più piacevole la sua dorata copertura. 

Tanto più che grazie alle sue dritte lo Stato è davvero ad un passo dallo smantellare la mafia e scoprire gli altarini. Peccato che al processo di Perugia le accuse ad Andreotti rimangano solo le congetture di un uomo furbescamente portato alla bugia… E morti Falcone e poi Borsellino, all’ergastolo il sin troppo morigerato Riina e i suoi principali accoliti, il cambio di marcia dell’onorata società entra nell’indistinto attuale, con ’ndrangheta e camorra decisamente più appariscenti nel panorama del crimine organizzato. Momenti di grande cinema, la prima parte, e qualche stanchezza nei resoconti processuali, quasi che il court drama non sia proprio nelle corde del regista, che peraltro accetta di buon grado la contaminazione dei generi, aprendosi – con le dilatazioni temporali che si prende – a quel linguaggio del seriale televisivo che è ben dentro le odierne vicende del cinema. 

Tornando a Buscetta, sa piangere e sorridere, canticchia e gioca di ironia: doti tutt’altro che comuni – c’è da credere – nel  paesaggio mafioso. Sufficienti per riabilitarne la memoria e farne un santino? Neanche per sogno e valga, in proposito, l’annunciato killeraggio che, in flashback, compare verso la fine. Era di quella pasta lì, vecchia o nuova guardia, “parlante” o meno. Un traditore mai pentito, per sua stessa reiterata ammissione, in un Paese dove il Va’ pensiero verdiano resta buono per tutte le occasioni: dalle secessioni bossiane alle sentenze mafiose. Con tutto il garbo di un dovuto sarcastico omaggio alla storia patria.

Il dolore di Pedro e il sarcasmo di Marco ultima modifica: 2019-05-27T17:09:26+02:00 da ROBERTO ELLERO
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