E tre. Nel senso che siamo al terzo colpo di fulmine per gli italiani: prima Renzi, poi Di Maio, ora Salvini. Il problema è che gli innamoramenti fulminei producono disamoramenti altrettanto veloci, come sanno bene quelli che ci sono passati prima dell’attuale vincitore. In più bisogna tener conto della percentuale dei votanti. La Lega ha ottenuto il 34 per cento del 56 per cento dei votanti. Ed è tutto da dimostrare che la percentuale si confermerebbe se a votare fosse il 75 per cento degli elettori, come accade mediamente per le politiche.
Le elezioni europee (Renzi docet) non sono l’infallibile anticipazione delle consultazioni domestiche. In più, il ritorno alla vita del Pd inserisce un nuovo protagonista sulla scena: se Zingaretti saprà parlare un linguaggio comprensibile e convincente potrebbero aprirsi prospettive nuove. È difficile, invece, immaginare una via di ripresa per i Cinque Stelle, che pagano la scarsa qualità della loro classe dirigente, l’inconsistenza della loro proposta politica, l’incapacità di rapportarsi con gli altri. Dopo una frana di questa portata il capo dovrebbe dimettersi e si dovrebbe aprire una riflessione per studiare le mosse successive. Ma nel M5S non ci sono sedi di dibattito né meccanismi di elaborazione e selezione di idee e proposte. La piattaforma Rousseau non risponde certo allo scopo.

La Lega non ha questi handicap: ha una solida classe dirigente, amministratori di provata capacità, proposte politiche chiare. Il suo problema, adesso, è cosa fare di questo governo. E le strade che ha davanti sono sostanzialmente due.
La prima: procedere con Conte e l’attuale compagine, ma alle sue condizioni, dal sì alla Tav all’autonomia regionale. Per far questo, però, bisogna che i Cinque Stelle si rassegnino ad un ruolo ancillare, decretando sostanzialmente la propria fine.
La seconda strada: provocare (o, meglio, far provocare dal M5S) la crisi di governo. In questo caso però si troverebbe di nuovo di fronte ad un bivio: andare ad elezioni in autunno o mettere in piedi un nuovo governo di centrodestra con Berlusconi e Meloni.
La via delle elezioni in autunno è complicata dalla legge di bilancio, che si deve fare entro l’anno e che è resa molto dolorosa dal dissesto dei conti pubblici, con il rischio di ritrovarsi ad affrontare uno spread stellare. Anche un governo di centrodestra in questo Parlamento non avrebbe una gestazione facile. Prima di tutto non ha la maggioranza e dunque dovrebbe comprarsi un po’ di parlamentari.
L’operazione non è impossibile perché la base degli eletti pentastellati è in angoscia: molti di loro non torneranno in Parlamento, sia per la regola dei due mandati, sia per la prevedibile sconfitta nelle urne. È perciò facile prevedere che non pochi siano disposti a votare qualunque governo che permetta loro di continuare a sedere sui loro scranni il più a lungo possibile e magari guadagnarsi un posto in lista alle prossime elezioni.

Tuttavia Salvini, in questo caso, dovrebbe tornare a fianco di Berlusconi. E questa per lui pare una prospettiva assai indigesta. Certo il Cavaliere, di cui le urne hanno sancito il declino, potrebbe farsi da parte consentendo a Forza Italia di emanciparsi e iniziare una nuova storia. Ma questo è tutto da vedere. Eppure, questa sembra la strada più sensata per Salvini, se non vuole che il trionfo alle europee si riveli l’ennesimo fuoco di paglia. Così, abbandonando i panni all’arruffapopolo, potrebbe costruire per la Lega il profilo di un partito solido, egemone nel suo campo, dotato di un programma coerente. Potrebbe affrontare la legge di bilancio e cercare davvero di evitare l’aumento dell’Iva, magari recuperando fondi dal fallimentare reddito di cittadinanza e rinviando la sua flat tax ad una data prossima ma non immediata. Perché, e questo è l’altro dato che emerge dalle elezioni europee, non troverà indulgenza tra i partner per ulteriori sforamenti del deficit. E trascinare l’Italia verso una deriva argentina non farebbe bene al Paese ma nemmeno a lui.
Quel che non è pensabile, invece, è l’ipotesi speculare, e cioè l’accordo M5S-Pd, che pure è stato spesso evocato, sia pure per esecrarlo. Forse (ma è un forse grosso come una casa) potrebbe convenire ai pentastellati, ma certo non converrebbe ai dem. Zingaretti ha cominciato, con successo, un’opera di ricostruzione, ma ha bisogno di tempo. Il voto europeo lo autorizza a sperare che se alle urne andasse il 75 per cento invece del già citato 56 le cose potrebbero andare ancora meglio. Ma la geografia politica deve assestarsi, i voti sprecati a sinistra devono coagularsi, il discorso programmatico deve precisarsi.
E la pacificazione nel partito deve stabilizzarsi e diventare produttiva. Ci sono tutte le premesse perché il Pd torni ad essere protagonista. Paradossalmente, l’unico vero problema per Zingaretti potrebbe venire da un Salvini che cambia pelle: che cioè assume tratti più moderati e veste i panni dello statista. Accadrà? È difficile dirlo nell’euforia del trionfo. Forse sì. O forse anche Salvini finirà vittima della “sindrome Renzi”: convincersi che, qualunque cosa si faccia, la vittoria è eterna.

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