Bisogni e consenso: trova gli untori e vinci la lotteria

In “Sindrome 1933” (Feltrinelli) Siegmund Ginzberg analizza con acutezza l’ascesa al potere del nazismo, riscontrando inquietanti analogie con l’Italia di oggi. In quell’anno Simenon giornalista gira per l’Europa, non riesce ad intervistare Hitler ma incontra un profetico Trotsky...
ROBERTO ELLERO
Condividi
PDF

D’accordo, la storia non si ripete mai. Allo stesso modo, almeno. E quand’anche si ripeta non è detto che la farsa replichi la tragedia, come lasciò scritto il buon Marx nel celebre 18 brumaio di Luigi Bonaparte. Le analogie: se sono troppe e insistenti si fanno inquietanti. Coincidenze del caso? In medicina, un complesso convergente di sintomi, dalle cause più diverse, va a connotare una sindrome. A sua volta assunta dalla pubblicistica sociologica per le psicosi collettive.

Non c’è da scherzare: leggasi in proposito Sindrome 1933 di Siegmund Ginzberg, in libreria per Feltrinelli, dove lo scrittore e giornalista, firma storica de l’Unità, ricostruisce l’irresistibile ascesa di Adolf Hitler nella Germania di quel famigerato annus horribilis. Proprio irresistibile? Già nel 1941, esule a Helsinki, in attesa del visto per gli Stati Uniti, Bertolt Brecht farà a pezzi  l’assunto dimostrando come l’ascesa di Hitler, ovvero del suo alter ego Arturo Ui, immaginario gangster nella Chicago degli anni Trenta, fosse viceversa arrestabile. Pur sempre letteratura. Cosa sappiamo, in realtà, su come andarono esattamente le cose? Meglio approfondire, specie di questi tempi.

“La resistibile ascesa di Arturo Ui” messo in scena dal Berliner Ensemble

Sindrome 1933 è un viaggio assai ben documentato, che spiega come un’armata brancaleone di fanatici nazionalisti in divisa, già messi a tacere – ma non adeguatamente perseguiti e repressi – dopo un fallito colpo di stato nel 1923 (il putsch di Monaco, o della birreria), largamente minoritari  nelle elezioni a seguire, riesca nel volgere di poco tempo a prendere il potere. Per giunta non nei momenti più cruciali della Repubblica di Weimar,  a sconfitta ancora bruciante, coi debiti di guerra incombenti, scossa da fremiti rivoluzionari di stampo bolscevico, dilaniata dall’inflazione, ma dopo, a scenari in fondo più acquietati. Il viaggio è in undici capitoli, ciascuno programmaticamente titolato e introdotto da una illuminante sinossi. Prendiamo il riassunto del primo, Cose già viste nel ’33, per dire come l’autore intenda subito indicare il senso di marcia:

Un contratto di governo tra due partiti che si erano insultati sino al giorno prima. Mediato da uno che si credeva più furbo degli altri. Hitler raggiante al balcone. I socialdemocratici minimizzano: “Hitler non è Mussolini, la Germania non è l’Italia”, “durerà poco”. I comunisti aspettano la rivoluzione. Sino a poco prima la sinistra litigava sulla chiusura o meno dei negozi alla vigilia di Natale.

Il riferimento “contrattuale” è ai balletti che precedono e accompagnano l’incarico di capo del governo a Hitler nel gennaio del 1933, con gli esponenti della destra “istituzionale” (Hindenburg, von Papen e altri ancora) intenti ad arginare l’ingombrante nuovo venuto contando di imbrigliarlo nei soliti giochi di potere.

Quel che resta di villa Yanaros, Büyükada, dove Leon Trotsky visse tra il 1932 e il 1933 alla fine del suo esilio di quattro anni nell’isola turca.

In quegli stessi inizi del 1933, dopo aver figliato i primi Maigret, Georges Simenon è in giro per l’Europa come inviato del settimanale Voilà. Trova un po’ ovunque animi esagitati, vuoi per le tasse in aumento e vuoi per il lavoro che manca, più spesso e almeno in apparenza per antichi e recenti strascichi nazionalistici. Trotsky, in esilio su un’isoletta al largo di Istanbul, gli spiega che, di questo passo, le cose non potranno che peggiorare: 

Per analogia con l’elettrotecnica, si potrebbe definire la democrazia come un sistema di interruttori ed isolatori per far fronte ai picchi di tensione nei conflitti nazionali o sociali… Se le tensioni e le contraddizioni di classe sono eccessive, interruttori e  fusi si fondono, si sbriciolano… Il corto circuito porta alla dittatura.

La dittatura, ma non quella del proletariato. Si passa a parlare dei nuovi nazionalismi e qui il teorico della rivoluzione permanente, a forzato riposo, si fa profeta:

Il fascismo, in particolare il fascismo tedesco, porta all’Europa un incontestabile pericolo di guerra. (…) Mi sembra che non ci si renda conto abbastanza dell’estensione di questo pericolo. In una prospettiva non di mesi ma di anni – in ogni caso non di decine di anni – considero come assolutamente inevitabile un’esplosione guerriera da parte della Germania fascista.  

Cabaret negli anni di Weimar

Saranno in molti, in Germania e nel mondo, a “sottovalutare” il pericolo, come per altri versi  avevano fatto una decina d’anni prima con Mussolini in Italia. Una volta a Berlino, Simenon vorrebbe intervistare Hitler ma non ci riesce. Gli capita soltanto di incrociarlo nell’ascensore dell’albergo, il Kaiserhof, senza alcuna possibile interlocuzione. In compenso, ascolta la gente per strada, confronta quel che scrivono i giornali locali, ammorbati dai cruenti e crescenti casi di cronaca nera, con le tinteggiature della stampa internazionale: Germania allo sbando. Non è esattamente quel che vede, avverte qualche manipolazione di troppo. Ma che la questione dei “mostri” tenga banco presso il popolino non c’è dubbio. E il mostro è naturalmente il diverso, preferibilmente l’ebreo si andrà scoprendo, che quando non stupra per strada guida i “poteri forti”, banche e giornali in particolare, contribuendo ad affamare il popolo. Insomma, con qualcuno bisogna pur prendersela per far colpo sulle masse: trova l’untore ed è facile che tu vinca la lotteria. E poi, si sa, paese che vai, untore che trovi. Il mondo è pieno di capri espiatori, anche se gira e volta s’assomigliano tutti.

C’è molto altro nella disincantata cronologia  di Ginzberg, che macina una sua “tensione” narrativa: il lettore sa come andrà a finire ma è ugualmente colpito dai passaggi intermedi e da certa faciloneria dei vari soggetti in campo: le tristi furberie dei conservatori, che finiranno per farsi presto facili prede; la sostanziale impotenza dei socialdemocratici, che non osano opporsi con decisione al micidiale “nuovo che avanza”; i sindacati che immaginano di poter ricavare pur sempre qualcosa di buono anche dal peggio, per il bene dei lavoratori s’intende; la sufficienza dei liberali che si sentono protetti dallo stato che immaginano di poter controllare; il plauso dei capitalisti che non ne possono più di scioperi e rivendicazioni; i comunisti che “rivoluzione o niente”. E sopra ogni altra cosa quell’amalgama sociale, senza più spirito e coscienza di classe, che si suole definire “popolo”: operai e bottegai, impiegati e piccolo-borghesi, disoccupati che cominciano a trovar posto nelle milizie naziste, futuri dipendenti dello stato, tagliagole che non gli par vero… Altro che mostri di Düsseldorf, utili peraltro ad alimentare costantemente e in profondità quella percezione di insicurezza che attanaglia la Germania. Il sociologo Siegfrid Kracauer,  amico di Benjamin e di scuola francofortese, parlerà dell’espressionismo cinematografico tedesco come di un grande incubatore del nazismo: fonte, in quanto specchio del disagio, e agente, quale moltiplicatore di quello stesso disagio, ben oltre la volontà e consapevolezza dei singoli autori, Fritz Lang in testa, prossimo all’esilio ma corteggiato da Goebbels (“Ebreo? Non fa niente…”).

È grazie al concorso quasi mai casuale di tutti questi elementi che un brutto giorno Hitler si trova padrone del Reichstag, simbolicamente parlando almeno, perché del palazzo che ospita il parlamento restano solo rovine fumanti dopo l’incendio appiccato il 27 febbraio 1933, di cui saranno accusati i soliti comunisti. E dopo quell’incendio, l’abolizione della maggior parte dei diritti civili garantiti dalla costituzione di Weimar, tra le più avanzate. La dittatura fa il suo ingresso, sostanzialmente indisturbata.

L’incendio del Reichstag

E oggi, qui da noi? Saranno anche del diavolo, le analogie, ma a pensar male talvolta s’indovina, come diceva quel tale. Disseminate qua e là, in pendant con gli accadimenti berlinesi di allora, le cronache italiane di oggi, il clima generale ma anche tanti piccoli e grandi accadimenti, episodi da riallacciare: dalle crociate contro i migranti, accusati d’ogni avversità e nefandezza, alla caccia al nero di Macerata, dalle sollevazioni contro i rom della periferia romana ai complotti dell’ebreo Soros e degli orridi burocrati di Bruxelles, un ministro degli interni e capo del partito della destra oggi elettoralmente trionfante che si presenta agli appuntamenti istituzionali in divisa, facendo volentieri sfoggio del lessico fascista. E ancora: il dileggio per la stampa e l’ossessivo attacco a taluni suoi rappresentanti, comunisti col rolex; le piazze reclamate da coloro che si autoproclamano nuovi fascisti e le puntuali manganellate delle forze dell’ordine a coloro che vi si oppongono, la casta e i poteri forti in capo alla sinistra, disastrata di suo. E sopra ogni altra cosa, l’avvincente “prima gli italiani”. Il florilegio potrebbe continuare.

Chi abbia avuto la bontà di leggerci, è invitato a prendere in mano il libro di Ginzberg, assai più puntuale ed efficace di queste nostre quattro note. E magari farà bene a leggersi anche il faticoso ma necessario Il figlio del secolo di Paolo Scurati, dove scorrono molte altre analogie con l’Italia del 1922.  D’accordo: a furia di accumulare pensiero analogico si rischia la paranoia, ma minimizzare, far finta di nulla, sono solo ragazzi e goliardate, dove porta? Lasciamo nuovamente la parola a Ginzberg:

I nazisti non erano bravi solo in fatto di propaganda. Toccavano tasti cui la gente era sensibile, blandivano interessi reali e diffusi (non solo gli interessi del grande capitale, come voleva la vulgata). A elargizioni  concrete corrispondeva consenso reale, crescente e formidabile.

Ecco il punto: bisogni e consenso. Sarebbe opportuno pensarci su, farsene carico, avessimo mai accarezzato l’idea che certi ritorni di fiamma (riferimento non casuale) sono soltanto frutto del caso.

Rifiutandosi di pagare i debiti di guerra, la Germania di Hitler si riarma, fregandosene dei trattati internazionali, che disconosce. E l’industria bellica diventa volano di sviluppo e fonte di reddito. I lavoratori confluiscono “spontaneamente” nel sindacato di regime. Ai tedeschi il Führer porta in dono la macchina del popolo (avete letto bene, proprio la Volkswagen, che apre i suoi battenti nel 1937). Il debito pubblico cresce ma le requisizioni agli ebrei garantiscono liquidità. E poi – una volta ben armati – ci sono interi paesi confinanti da conquistare e spremere… Questione di pochi anni e l’Europa va a fuoco. La profezia di Trotsky. Viene picconato il 24 maggio 1940 in Messico dai sicari di Stalin, che in precedenza un accordo con Hitler l’aveva pur trovato. E questo, si dirà, è un altro capitolo, facente pur sempre capo alla disinvoltura con cui i fascisti e nazisti di ieri giocavano con la politica e la storia. E i sovranisti di oggi?


Bisogni e consenso: trova gli untori e vinci la lotteria ultima modifica: 2019-05-31T13:42:22+02:00 da ROBERTO ELLERO
Iscriviti alla newsletter di ytali.
Sostienici
DONA IL TUO 5 PER MILLE A YTALI
Aggiungi la tua firma e il codice fiscale 94097630274 nel riquadro SOSTEGNO DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE della tua dichiarazione dei redditi.
Grazie!

VAI AL PROSSIMO ARTICOLO:

POTREBBE INTERESSARTI ANCHE:

Lascia un commento