Slow Venice

Non un nostalgico elogio della lentezza ma un attuale riconoscimento e rispetto della sua peculiarità: per Venezia ci vuole un’idea che affronti i suoi fenomeni specifici con lo scopo di non violentarla o omologarla, ma con quello di garantirne le funzioni di città moderna calata in un contesto antico.
CLAUDIO MADRICARDO
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Entro in punta di piedi in un dibattito che in questi giorni ytali ha ospitato pubblicando gli interventi di due suoi lettori. Tutto ha avuto origine dallo scritto di Saverio Pastor, di professione remer di cui ormai è il decano, in cui l’autore rimetteva al centro il tema dell’acqua nella nostra città, da lui vista 

come risorsa e non come un ostacolo da superare il più velocemente possibile, come elemento distintivo e non come maledizione divina, come caratteristica di unicità da valorizzare invece di voler riproporre, pure qui, i modi di vivere di ogni città del mondo.

Gli ha risposto con un’ironia degna di miglior causa, un altro lettore, Lorenzo Colovini, osservando che così facendo, la città dovrà ridursi a essere popolata da

persone che dovranno essere soddisfatte di vivere in modo diverso dalle altre parti del mondo, che non avranno problemi di tempo, che si pasceranno dell’acqua come elemento distintivo.

Riconoscendo a Pastor il merito di aver redatto 

un vero e proprio Manifesto in cui, con mirabile chiarezza, espone le contraddizioni dell’ideologia coltivata e blandita dal variegato mondo verde – ambientalistico – nostalgico – luddista che a Venezia costituisce quasi un partito.

Questo l’ambito della contrapposizione, non certo nuovo in città, dove al partito in cui Colovini iscrive Saverio Pastor, s’oppone da sempre un altro schieramento che si è posto il problema dell’irriducibile specificità di Venezia, semplicemente negandola per proprie carenze culturali in primo luogo. Non sapendo quale sviluppo potesse essere perseguito per una città come Venezia, ha cercato di omologarla al resto del mondo. 

Una gondola con a bordo turisti orientali incrocia un barcone da trasporto in navigazione sul Canal Grande © ANDREA MEROLA

I disastri ora li abbiamo tutti sotto gli occhi, frutto di scelte manchevoli da parte di chi ha governato la città, cui ultimamente è giunta la resa al laissez faire economico, in un’ansia di sviluppo continuo e inarrestabile che la relega sempre più a un ruolo da rentier e di fabbrica del guadagno per un territorio che si va di giorno in giorno ampliando e che sulle sue spalle vuol campare.  Risale alla fine degli anni Ottanta l’unica grande idea che la città abbia prodotto riguardo a uno sviluppo differente e rispettoso degli equilibri, capace di contrastare l’egemonia dell’economia turistica che già si profilava. Mi riferisco a quello che uscì dal convegno che l’Istituto Gramsci “Idea di Venezia”, per quanto riguardava la possibilità che la città potesse essere sede delle eccellenze mondiali dell’immateriale, chiamate a insediarsi nell’Arzanà de’ Viniziani dove il bollire della pece sarebbe stato sostituito da merci che per spostarsi per raggiungere i mercati in tutto il mondo, sarebbero corse attraverso la rete.

Poi si scoprì che quelle aziende su cui si era pensato che avrebbero potuto scegliere Venezia per la bellezza del contesto, risposero, come in tanti, bella, ma non ci vivrei, perché mancava in essa il vero requisito che altri Paesi seppero garantire a realtà produttive che tali rimanevano, e in quanto tali erano ben attente alle convenienze ambientali offerte, in primo luogo ai regimi fiscali.

Così, con l’andar del tempo, quella velleità che poi ha consentito alla sinistra cittadina di dar vita alla sua lunga stagione di governo, a fronte del fatto che ormai andava risultando chiaro che l’insediamento delle aziende tecnologiche doveva rimanere un buon proposito, lastricò la sua strada per l’inferno di scelte più prosaiche e arrendevoli nei confronti delle dinamiche economiche che si andavano prepotentemente imponendo. Finché giungiamo alla situazione odierna, in cui il limite è a detta di tutti ampiamente sorpassato, gli ambienti antropici e paesaggistici cittadini e lagunari messi a rischio, e la città avviata alla sparizione fisica nel giro di un qualche decennio. Consapevoli, continuiamo a danzare sull’orlo del vulcano. Quos deus vult perdere prius dementat.

Una riva d’approdo lesionata dal moto ondoso, lungo la riva delle Zattere, sul canale della Giudecca © ANDREA MEROLA

Chiedo scusa per la lunga digressione, e torno a Saverio Pastor e alle ragioni da lui esposte in quell’intervento cui sopra accennavo, in cui originariamente si rivolgeva agli artigiani cittadini che rappresentano il suo mondo. Al quale non poteva esimersi dal ribadire la centralità dell’acqua e della civiltà del remo, senza che questo lo porti come conseguenza a ipotizzare una città di artigiani, di pensionati felici e lenti, una sorta di eden avulso da ogni realtà che avrebbe l’effetto di espellere tutto quanto si rapporta con la contemporaneità. 

Ha fatto bene Pastor a invocare la tutela delle tradizioni millenarie chiedendo che siano materia d’insegnamento nelle scuole, a iniziare dalla pratica del remo. Perché mai come in questo momento in cui la città rischia di sparire c’è bisogno di riconoscerci tutti nelle identità che ci connotano. Siano esse il remo, il rispetto del moto ondoso che non è, caro Colovini, la battaglia del popolo delle barchette, ma l’aspetto centrale che permette di sopravvivere a questa città e al suo ambiente. Un ambiente per nulla naturale, badi bene, anzi costruito nei secoli, ma che grazie alla perizia di chi ci ha preceduto ha assunto un suo equilibrio.  

Ha ragione Colovini, se quella di Pastor fosse la posizione che gli attribuisce, alla fine porterebbe alla distruzione della città. Quel che gli sfugge è che alla stessa fine conduce anche la sua posizione, che l’accusa di passatismo per difendere una contemporaneità, uno sviluppo e una velocità tipici del Novecento, i cui effetti hanno raggiunto i livelli di saturazione dove viviamo.

E che a livello planetario hanno innescato quella cosa ormai incontrollabile e a quanto pare irreversibile che va sotto il nome di cambiamento climatico, grazie al quale in breve tempo saremo chiamati a pagare un conto in termini di fenomeni naturali e migratori, che supererà ampiamente i benefici arrecati da un capitalismo la cui fine, se non sarà segnata dalla presa del Palazzo d’Inverno, ha tutte le premesse per farci pensare che lo sarà per opera di un harakiri. 

Così, alla fin fine, cari Pastor e Colovini, quelle vostre posizioni coinciderebbero negli effetti.

La prima, stando alle accuse ingenerose di Colovini, preclude alla città uno sviluppo moderno.

La seconda, sulla scia di un modernismo i cui danni non devono ancora apparire sufficienti a Colovini, si fa beffe degli equilibri su cui la città ha basato la sua esistenza in nome di uno sviluppo che appare sempre più irrisorio pensare eterno. Mentre la lezione che abbiamo sotto gli occhi dovrebbe sempre più farci capire come ormai siamo comparse di un paradigma, grazie al quale Venezia, ancora una volta rivelatasi centrale, manda un messaggio di quel che sta accadendo a livello climatico nel mondo.

Un’immagine dei croceristi mordiefuggi © Andrea MEROLA

Se l’antica intuizione del Convegno del Gramsci che prima ho richiamato, è allora fallita, non per questo, rivista e adattata, non potrebbe portare buoni frutti. Già qualcosa per fortuna in città si muove nel campo dell’uso delle tecnologie, questa volta contando sulle proprie forze e chiamate a pensare soluzioni alle necessità espresse da Colovini. Ma rispettando allo stesso tempo le ragioni enunciate da Pastor. Come già la scienza, nemmeno la tecnologia è neutra, si tratta di farle rispondere alle domande che vogliamo porle, e la fortuna è che da qualche tempo esse cominciano a venirci in modo chiaro in mente. 

Il che ci induce a pensare che il futuro fisico, economico, demografico e ambientale della città potrebbe dipendere dalla capacità di risolvere le problematiche ricorrendo alla tecnologia. Se sapremo essere capaci di far nostre quelle domande che ci provengono, come grida di aiuto, dalla volontà e dalla forza limitata di singoli ricercatori, se saremo in grado di trasformarle finalmente in questioni di governo e della sfera della decisione politica, decideremmo finalmente una linea nei confronti di Venezia capace di un’idea che affronti i fenomeni con lo scopo di non violentarla o omologarla, ma con quello di garantirne le funzioni di città moderna calata in un contesto antico,  con quelle specificità che fanno tanto sorridere Colovini alla fine salvaguardate. 

Slow Venice ultima modifica: 2019-05-31T15:29:07+02:00 da CLAUDIO MADRICARDO
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1 commento

Lorenzo Colovini 31 Maggio 2019 a 16:50

caro Claudio, grazie per l’attenzione.
Ho stima e rispetto per le tradizioni del remo e della voga. Ma se sono poste come temi “esclusivi” come se dipendesse da queste e solo da queste la salvezza di Venezia, non ci sto. E non ci sto nemmeno a farmi classificare come uno che propone di asfaltare il Canal Grande (“un modernismo i cui danni non devono ancora apparire sufficienti a Colovini..”). Solita contrapposizione, francamente stucchevole: o sei un fanatico del remo o un barbaro distruttore, tertium non datur.. Si può, come dici tu stesso, perseguire una città moderna calata in un contesto antico.
Infine, ti sei mai chiesto perché l”Arsenale non è diventata la sede delle eccellenze immateriali? Uno dei motivi è che per diventare un centro studi strafigo e attrattivo si dovrebbe per esempio consentire a un luminare di prendere l’aereo da qualsiasi capitale europea, in quarto d’ora essere lì e magari rientrare in serata. Allora sì si può pensare di essere competitivi.
L’aeroporto connesso con le capitali lo abbiamo (anche se un autorevole teorico della lentezza del remo poco tempo proponeva di.. spostarlo in mezzo al Veneto perché A LUI non interessa) E con la sublagunare ci si sarebbe arrivati in un lampo. Già, la subalagunare…immagino che anche tu la considerassi una forma di modernismo distruttivo

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